La situazione in cui si ritrova l’ex-Ilva di Taranto non è un conflitto tra salute e occupazione, ma una lotta tra operai e padroni (dei padroni contro gli operai); non è un esercizio di compatibilità tra ambiente e “sviluppo”, ma l’evidenza di un’alternativa ineludibile tra conversione ecologica e catastrofe climatica e ambientale. Situazione che apre una voragine destinata a inghiottire l’esistenza di 20mila lavoratori e di 20mila famiglie, ma porta alla luce anche l’inganno di uno “sviluppo” che non ha più spazio per riprodursi e perpetuarsi. Che fare allora della non più ex-Ilva?
La strada imboccata dal governo è la peggiore. Inseguire un gruppo industriale perché “si prenda cura” di un impianto di cui ha assunto la proprietà solo per “toglierlo di mezzo” e acquisirne il mercato non è buona politica. Se anche si arrivasse all’accordo, quel gruppo troverà nuove occasioni per sfilarsi, non certo per rilanciarlo. E’ peggio che lasciare tutto in mano ai Riva, che lo spremevano fino a che non fosse andato per sempre in malora.
Smantellare l’impianto, risanare il sito e ricostruirlo altrove? A parte il costo stratosferico, che prospettive potrebbe mai avere un impianto nuovo (magari alimentato a gas: così si giustifica anche il Tap) in un mercato dell’acciaio destinato a contrarsi?
Tenerne in vita solo una parte e cercare soluzioni alternative – il risanamento del sito – per le maestranze “superflue”? Perderebbe l’unico vantaggio competitivo che ha, il gigantismo, senza promettere né di andare in attivo né di finanziare la bonifica.
Chiuderlo e cercare delle alternative? Sì, ma non possono essere improvvisazioni o espedienti come la “panacea” del turismo: l’industria a maggior impatto ambientale del mondo, che andrà presto in crisi mano a mano che aerei e navi da crociera verranno messi sotto accusa come maggiori emettitori di CO2.
E poi a chi affidare la riconversione? Ai privati? In Italia, ma anche in quasi tutto il mondo, gli investimenti industriali languono, a maggior ragione su soluzioni dalle scarse prospettive. A incentivi sufficienti a smuoverne gli appetiti? A prescindere dai vincoli sugli aiuti di Stato, si sa che i beneficiari li incassano e poi se ne vanno. Allo Stato, attraverso una nazionalizzazione totale o al 30%? Ma, ristrettezze della finanza pubblica a parte, dov’è il management per gestire un impianto del genere? Aggiungi che i Riva avevano smantellato non solo il management Italsider, ma anche tutto il quadro intermedio, affiancandolo con una rete di “fiduciari dell’azienda” che facevano il bello e il cattivo tempo per conto del padrone.
Chi è in grado di assumersi un compito titanico del genere senza bluffare, come hanno fatto finora tutti i commissari? Non c’è più l’Iri che, nel bene e nel male, era stata una scuola e un vivaio di manager per tutto il settore pubblico, con una propria “cultura aziendale”. Oggi a dirigere quello che di pubblico è rimasto nell’economia italiana vengono chiamati solo squali che hanno fatto strada nel settore privato o nella finanza.
Ma l’Italia, si dice, non può fare a meno del “suo” acciaio. Quale Italia? Quella che ha 1,7 auto private per abitante (il tasso più alto dell’Europa)? Non durerà a lungo. E quanto acciaio? Quello per alimentare le catene della fusione FCA (Fiat Chrysler Automobiles) con la PSA (Peugeot, Citroën, DS, Opel e Vauxhall Motors), che si ridimensioneranno, o Fincantieri, che fa solo navi da crociera e da guerra, o Leonardo, totalmente riconvertito alla produzione di armi? Sono tutte aziende senza futuro: la crisi climatica ne metterà fuori uso le produzioni (già lo sta facendo) e l’industria bellica – l’unica che prospera – va messa in crisi lottando per la pace.
Alla discussione sul futuro dell’Ilva e di Taranto mancano due cose fondamentali: una è la crisi climatica, che imporrà in tempi molto stretti una radicale riconversione dell’apparato produttivo, con la chiusura di tutte gli impianti incompatibili con le esigenze di una economia climate-friendly, pena il loro collasso per mancanza di mercato, ma anche con l’apertura di altrettante iniziative necessarie alla riconversione – in campo energetico, impiantistico, agroalimentare, nella mobilità, nell’edilizia, nel risanamento del territorio, oltre che in tutti gli ambiti del “prendersi cura” delle persone – istruzione, sanità, cultura, assistenza).
L’altra è la necessità di una nuova governance dell’apparato produttivo e del territorio, considerati insieme, perché fanno parte di uno stesso mondo, che è quello della vita quotidiana di ciascuno. La gestione attuale è inadeguata e incapace di immaginare l’ineludibile transizione che ci attende. Non c’è personale per gestirla né nelle direzioni aziendali o nelle sedi dell’alta finanza, né al governo degli Stati o delle amministrazioni locali e meno che mai alla Bocconi.
Quelle competenze ci sono, ma sono senza voce e disperse. Si possono recuperare solo mettendo insieme maestranze, tecnici, associazioni civiche, Università, pezzi sparsi del management e dei governi locali. Innanzitutto per valutare insieme che cosa si può salvare, che cosa si può riconvertire e che cosa va eliminato dell’apparato produttivo e dell’assetto territoriale esistente. E’ quello che si poteva e doveva fare già sei anni fa, quando i “cittadini e lavoratori liberi e pensanti” avevano preso in mano la questione, riuscendo a convocare in piazza assemblee quotidiane con migliaia di presenze che si è fatto di tutto per soffocare.
Oggi ci si lamenta che la partecipazione langue? Taranto, soprattutto allora, ha dimostrato il contrario. Langue se la si soffoca; fiorisce se si apre uno spiraglio per cambiare le cose.
Presto la crisi climatica e ambientale la rimetterà all’ordine del giorno ovunque. In attesa di una politica industriale che includa questi processi, i lavoratori che sanno che perderanno il posto comunque potrebbero rivelarsi i veri sostenitori della transizione.