Di fronte all’evidenza della crisi climatica i negazionisti non negano più il cambiamento, ma ne contestano l’origine antropica. Per continuare sulla loro strada. Come ha spiegato Naomi Klein, i “Signori del petrolio” sanno bene che la CO2 ci sta portando alla catastrofe, ma hanno compreso anche che il transito a un nuovo regime energetico non è un fatto tecnico: comporta il passaggio da un sistema centralizzato, in cui potere e ricchezza sono concentrati in poche mani, a un sistema decentrato, in cui potere e risorse possono essere distribuite. Non vogliono perdere i loro privilegi, a costo di mandare l’umanità in malora; contano che per loro un modo per mettersi in salvo ci sarà sempre. Il negazionismo non va quindi confuso con l’ignoranza delle cause della crisi, che coinvolge forse la maggioranza della popolazione mondiale, a partire da coloro che quella crisi la vivono già sulla propria pelle.
Ma nel campo “interventista” affiorano subito le differenze. Da un lato, green-washing: spacciare per lotta per il clima le misure messe in cantiere ben prima dell’allarme di Greta Thunberg e dell’IPCC. Come fanno l’attuale governo italiano, confermando la vecchia Strategia Elettrica Nazionale di Passera e Monti, o il sindaco di Milano, che fa passare il Piano di Governo del Territorio messo a punto quando era il direttore della giunta Moratti per la risposta della città alla dichiarazione di emergenza climatica.
Dall’altro, coloro che lavorano a una svolta si ritrovano quasi tutti i sotto un unico ombrello chiamato Green New Deal: finanziare la transizione energetica con un grande piano pluriennale di investimenti. In questo magazzino troviamo versioni diverse, sgranate tra due polarità che, schematizzando, sono “Sviluppo sostenibile” e “conversione ecologica”. Sviluppo significa crescita e sostenibile (in francese durable) vuol dire infinita: cosa impossibile in un pianeta finito. Ma i fautori di questo indirizzo protestano: la crescita è solo quantitativa e lo sviluppo riguarda anche il “fattore umano”. Vero. Ma per loro uno sviluppo senza crescita non è possibile: questa è condizione di quello. Crescita però, dicono, non significa necessariamente continuare ad aggredire le risorse dell’ambiente e intasarlo di scarti; è possibile separare aumento del Pil e consumo di risorse fisiche (decoupling).
E’ una tesi su cui si sono spese per anni le principali agenzia mondiali (OCSE, Commissione Europea, Unep, Banca Mondiale) senza trovarne alcun riscontro empirico se non per pochi settori e per periodi limitati, ma è stata affossata da molti studi e, in modo definitivo, da Decoupling debunked: metastudio dell’European EnvironmentalBureau su ricerche di 143 enti in 30 paesi. A differenza di chi fa solo green-washing, questo filone di pensiero, che in Italia ha il suo principale esponente nell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (Asvis) presieduta da Enrico Giovannini, ritiene che una svolta ecologica sia, sì, necessaria, ma non imponga un sostanziale cambiamento di stili di vita (una “cartina al tornasole” è: abolire le auto private, anche elettriche?) e dell’organizzazione sociale.
A produrre la svolta saranno infatti le imprese, sotto lo stimolo di una forte pressione popolare, ma soprattutto in vista di convenienze (leggi profitto) da creare con incentivi e penali: affidando cioè a un mercato “governato” il compito di portarci fuori dai fossili. Rientrano in un approccio simile le tesi di Jeremy Rifkin nel saggio Un Green New Deal Globale che prospetta, sì, una generale redistribuzione del potere nel passaggio dall’era fossile alla “Terza rivoluzione industriale”, ma sviluppa una visione tecnica e quasi deterministica della transizione, imposta, a suo avviso, dai quattro pilastri del futuro assetto: l’internet dell’informazione, dell’elettricità, delle cose e dei trasporti.
Ma a un Green New Deal si richiamano anche figure che si dichiarano socialiste come Bernie Sanders e Alexandra Ocasio-Cortez negli Usa e Jeremy Corbyn e Yanis Varoufakis in Europa, o movimenti e attivisti che non si connotano in tal senso, come Sunrise o Naomi Klein. L’elemento che li accomuna, assente nelle visioni precedenti, è il conflitto: per loro la lotta contro la crisi climatica ricomprende in sé obiettivi e istanze delle classi, delle comunità e dei gruppi sfruttati, emarginati, più esposti al degrado ambientale e sociale. Obiettivi che gli esponenti inseriti nei processi istituzionali riassumono in programmi di governo, sconfinando facilmente, come nel caso di Diem25, nella prospettiva di uno stato imprenditore. E che invece gli esponenti più legati ai movimenti cercano di portare alla luce a partire dai conflitti in corso, mettendo a fuoco sia il tema che accompagna in tutto il mondo occidentale l’avanzata delle destre negazioniste – la fobia e la caccia ai migranti – sia soprattutto le ferite che le politiche estrattiviste e sviluppiste infliggono ai territori. Questi sono intesi come ambiti entro cui si concretizza il rapporto che ogni comunità dovrebbe poter intrattenere con l’insieme del vivente per potersi costituire come tale. Un rapporto in cui qualità, distribuzione e origine del cibo svolgono un ruolo centrale.
Al centro di questo approccio emerge il nesso indissolubile tra giustizia sociale e giustizia ambientale, la “conversione ecologica” che Alex Langer aveva prospettato trent’anni fa, precisando che per affermarsi doveva essere “socialmente desiderabile”. Tema presente nell’enciclica Laudato sì di papa Francesco, dove la conversione ecologica è sviluppata come rovesciamento della cultura antropocentrica – quella che vede nell’uomo non il custode ma il padrone del “Creato” – per promuovere la riconquista di una sorellanza con la Madre Terra (tema al centro del sinodo sull’Amazzonia chiuso ieri): il presupposto irrinunciabile di un conflitto che permetta ai poveri di tutto il mondo di far valere i loro diritti contro la crisi climatica di cui sono le principali vittime.