Può la cultura servire la pace? Quando si tratta della individuazione e promozione del patrimonio culturale nella sua multiforme interezza, si tratta, al tempo stesso, di un vero e proprio complesso culturale, composito e integrato, in cui gli elementi dell’immateriale, che definiscono la gamma del «patrimonio intangibile» (feste e rituali, celebrazioni e miti, narrazioni e saperi) sono connessi e interrelati ai luoghi culturali che delineano il panorama del «patrimonio materiale» (musei e monumenti, memoriali e mausolei, grafiche ed architetture).
Nell’orizzonte di questa prospettiva, è possibile, spesso nei Balcani, soprattutto in Kosovo, affermare il ruolo del patrimonio culturale come «fattore connettivo», costituente e ricostituente, di territori e comunità. La dimensione strategica di tale assunzione, nella prospettiva del «culture-oriented peace-building», non può essere sotto-valutata, in quanto afferma la rilevanza dei diritti culturali tra quelli atti a garantire sviluppo e futuro per le comunità di riferimento. Come ha recentemente ricordato Karima Bennoune (2016), relatrice speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite nel campo dei diritti culturali, «i diritti culturali tutelano la facoltà di ciascuno e ciascuna, di gruppi e comunità, di esprimere e sviluppare la propria umanità, la propria visione del mondo ed i significati che essi associano alla loro esistenza e al loro progresso, attraverso, inter alia, credenze, linguaggi, conoscenze, nonché arti, istituzioni e stili di vita». Ciò significa che «il diritto di avere accesso e fruire del patrimonio culturale comprende il diritto […] di partecipare alla identificazione, alla interpretazione e allo sviluppo del patrimonio culturale» stesso. Esso vive in quanto e nella misura in cui è partecipato dalle persone.
Promozione della cultura, dunque, come questione di diritti e come opportunità per il miglioramento delle condizioni di vita dei territori, come questione della pace. È anche una decisiva questione politica, perché indica comportamenti ed abitudini, ormai consolidati, da modificare; sollecita iniziative da intraprendere e fondi da stanziare; traguarda un modello di relazione da ridefinire tra territorio e comunità nel suo complesso. Una «questione politica», si diceva, perché, in definitiva, recupera e sostiene gli elementi intorno ai quali la comunità si incontra e si riconosce, rituali, ricorrenze, narrazioni, in una parola, i «luoghi della memoria»; e progetta e scommette sullo sviluppo del territorio a partire dalle risorse esistenti e dalle comunità degli abitanti: un’idea di “valorizzazione”, dunque, sottratta alle logiche e alle compatibilità del mercato capitalistico, della “monetizzazione” dei luoghi e delle attività culturali, e che, viceversa, si consegna, come patrimonio, alla comunità, nel senso di una appropriazione positiva, all’insegna di una vera e propria «comunità di patrimonio».
Sin dalla Convenzione di Faro, la «Convenzione del Consiglio d’Europa sul valore della Eredità Culturale per la società», sottoscritta dall’Italia nel 2013 e presentata a Faro, in Portogallo, nel 2005, viene introdotto nelle politiche il concetto di «eredità-patrimonio», inteso come «insieme di risorse, ereditato dal passato, che le popolazioni identificano […] come espressione dei loro valori, delle loro conoscenze e delle loro tradizioni» (art. 2), invitando a «trarre beneficio dal patrimonio culturale e contribuire al suo arricchimento» (art. 4).
Del resto, la stessa Convenzione di Parigi, la «Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Immateriale», risalente al 2003, riconosce «l’importanza del patrimonio immateriale quale fattore principale di diversità culturale e garanzia di sviluppo»; rileva, inoltre, «il ruolo del patrimonio immateriale in quanto fattore per riavvicinare gli esseri umani e per assicurare l’intesa fra di loro»; e ricorda, infine, che tale «patrimonio immateriale è, via via, ricreato dalle comunità […] e dà loro un senso di identità e di continuità, promuovendo il rispetto per la diversità e per la creatività». Individua, cioè, per la prima volta, questo nesso, del patrimonio culturale e dei luoghi culturali, delle espressioni e della creatività, come fattore decisivo di vita per le comunità.
In un suo saggio (1984), destinato a fare scuola e più volte richiamato in letteratura, Pierre Nora descrive i «Luoghi della Memoria» come «un’unità significativa, di ordine materiale o ideale, che la volontà degli uomini o l’azione del tempo ha reso un elemento simbolico di una qualche comunità». «Il luogo della memoria ha come scopo quello di fornire al visitatore il quadro autentico e concreto di un fatto storico. Rende visibile ciò che non lo è: la storia […] e unisce in un unico campo due discipline: appunto la storia e la geografia». Quest’aspetto non può essere sotto-valutato, nel quadro di una politica che intenda, al tempo stesso, attivare processi culturali e innescare dinamiche di sviluppo. Essa finisce per rientrare in quelle che sono le finalità precipue dell’UNESCO, a partire dalla consapevolezza che «l’ampia diffusione della cultura e l’educazione dell’umanità alla giustizia, alla libertà e alla pace sono indispensabili per la dignità dell’uomo». Della cultura, cioè, come fattore di pace.
È così che la promozione del patrimonio culturale assurge a cruciale questione di giustizia, al punto da rientrare tra i diritti fondamentali, secondo quanto richiamato dall’art. 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, in base al quale «ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici». «L’istruzione e, in particolare, l’educazione al patrimonio, devono promuovere […] l’amicizia fra le nazioni, i gruppi etnici e religiosi, e favorire l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace». Un messaggio prospettico, carico di futuro: tanto più nel contesto della ex Jugoslavia, nel quadro del nostro «itinerario di itinerari».