Per le donne di Nabi Saleh la lotta sociale e le rivendicazioni delle donne vanno di pari passo con la lotta per la fine dell’occupazione”.
“L’occupazione ha tolto ad Ahed la sua infanzia e adesso le sta rubando l’adolescenza. Avere questa responsabilità, essere diventata un simbolo per il popolo palestinese… Non è facile da sopportare per una ragazza di 18 anni”. Sotto il velo nero, lo sguardo orgoglioso di Nariman Tamimi è lo stesso di sua figlia Ahed, la giovane palestinese arrestata nel dicembre 2017 e detenuta per otto mesi dopo aver schiaffeggiato un militare israeliano. Nariman ha parlato all’agenzia Dire in videochiamata, mentre si trovava in Italia.
“I coloni hanno diffuso l’indirizzo di Ahed sui loro siti internet, hanno incitato altri coloni ad attaccarla e reso pubblica la strada che percorre ogni giorno per andare all’università” continua Nariman. L’Università di Ahed è la Birzeit di Ramallah: “Avrebbe voluto diventare una calciatrice – spiega la donna – ma dopo i numerosi arresti nei confronti miei e di suo padre, dopo che l’esercito israeliano aveva ucciso i suoi due zii, dopo che la causa intentata contro i loro uccisori si era risolta in un nulla di fatto, Ahed ha pensato di studiare legge, per difendere la Palestina anche attraverso il diritto internazionale“.
La storia di Ahed “rassomiglia alla storia di tante altre ragazze palestinesi” tiene a sottolineare la madre, e non viene dal nulla. La giovane arriva dal villaggio di Nabi Saleh, che si è distinto negli anni per le sue azioni di resistenza popolare e non armata, in cui la stessa Nariman è da sempre in prima linea. Nelle prigioni israeliane è finita anche lei, e molte volte: dietro le sbarre è riuscita a diplomarsi, e ora studia sviluppo comunitario all’università. Il suo viaggio in Italia è durato circa una settimana, nella quale ha partecipato a incontri di sensibilizzazione insieme a due altre attiviste del suo villagio, Bushra e Najah, su iniziativa dell’associazione “Assopace Palestina” e della presidente Luisa Morgantini.
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L’ultimo arresto è avvenuto insieme a quello di Ahed: Nariman era stata incolpata per aver diffuso il video della figlia durante il diverbio con il militare israeliano. “Ho sempre filmato durante le manifestazioni” spiega Nariman. “L’ultimo video che ho fatto mostra la morte di mio fratello, ucciso da un soldato a sangue freddo. Avevo la telecamera in mano e ho voluto continuare a riprendere nonostante il dolore, per mostrare ciò che l’occupazione fa ai palestinesi”.
“La mia storia è, come quella di tante palestinesi, fatta di spostamenti” racconta la donna. “La mia famiglia è stata cacciata dalla Palestina nel ’77, e io sono nata in Giordania. Poi abbiamo vissuto in Arabia Saudita: durante la prima intifada, restavamo per ore a guardare le poche immagini e notizie che arrivavano dalla Palestina. Volevamo tornare”.
È solo dopo gli accordi di pace di Oslo del 1993 che Nariman ed i suoi parenti fanno ritorno a Nabi Saleh, in Cisgiordania. Qui Nariman incontra il marito, Bassem, anche lui attivista per i diritti dei palestinesi: all’epoca era stato già detenuto, torturato, costretto ad assistere all’uccisione della sorella per mano di una soldatessa israeliana. “Per me lui era un eroe, perché nonostante tutto questo era rimasto forte. È con lui che mi sono formata anche politicamente. Avevo 18 anni”.
Passano gli anni, e per Nariman e Bassem arrivano il matrimonio e quattro figli. Nonostante abbia bambini piccoli, anche la seconda Intifada, nel 2000-2005, è un momento di lotta per la famiglia Tamimi. “Abbiamo continuato a mobilitarci – spiega Nariman – e nel 2009, durante la resistenza di Nabi Saleh, non solo io, ma tutte le donne, abbiamo avuto un ruolo cruciale, soprattutto dopo che la maggior parte degli uomini e dei ragazzi era finita in carcere”. Le manifestazioni settimanali iniziano quando, dalla vicina colonia di Halamish, gli israeliani confiscano una fonte d’acqua potabile. La fonte, spiega Nariman, si trova su un terreno che appartiene agli abitanti di Nabi Saleh, ma è stata dichiarata “luogo sacro” per gli ebrei, e, da quel momento, ai palestinesi è stato vietato accedervi. Così, ogni venerdì, il villaggio scende in strada, con modalità ispirate alla prima intifada: sono dimostrazioni “popolari e non armate” in modo che “tutti, dai bambini agli anziani, possano avervi un ruolo”.
Quella di Nabi Saleh è una vita in cui “non sei mai sicuro”: “Da un momento all’altro puoi aspettarti che i soldati entrino per arrestare qualcuno – racconta Nariman – ma così è la vita di molti altri villaggi palestinesi”.
A pesare sulla vita delle donne palestinesi, tuttavia, non c’è solo l’occupazione israeliana, ma anche la violenza che subiscono da parte di padri, fratelli e mariti nelle loro famiglie. È per questo che da alcune settimane è sorto il movimento “taleaat”, ovvero di “quelle che escono”, sull’onda dell’indignazione per la storia di Israa Gharib, 22 anni. La morte di Israa è ancora oggetto di indagine, ma di certo la ragazza aveva subito percosse dai suoi parenti per aver pubblicato sui social network immagini che la ritraevano insieme a un ragazzo di cui era innamorata. “La morte di Israa è stata giustificata come ‘delitto d’onore’: in base a questa norma, gli uomini che se ne fanno artefici hanno diritto a uno sconto di pena” spiega Nariman.
“Le donne palestinesi hanno manifestato contro questa legge contemporaneamente, sia in Cisgiordania che nelle zone che attualmente sono in territorio israeliano. Oltre all’abolizione del delitto d’onore, denunciamo le condizioni delle prigioniere palestinesi nelle carceri israeliane. Oggi ce ne sono 54 e una di loro, la ventitreenne Heba Al-Labadi, è in sciopero della fame da un mese e rischia di morire”. Per Nariman e per le donne di Nabi Saleh, insomma, “la lotta sociale e le rivendicazioni delle donne” vanno “di pari passo con la lotta per la libertà e per la fine dell’occupazione”.
Foto di Nariman Tamimi/ Facebook