Ci fu un tempo in cui Mireille non aveva figli, non poteva averne. Passava le giornate in lacrime meditando sull’inutilità della sua esistenza. In Camerun era stata una ragazza fortunata, aveva potuto studiare e conseguire una laurea all’Università Cattolica dell’Africa Centrale. Suo marito Victorien si era accollato le spese e ora lei non poteva ripagarlo con la gioia di una numerosa prole. Per la gente del villaggio, due ore dalla capitale, la sterilità era un maleficio e solo un potente stregone poteva contrastarla. Oggi Mireille ha tre figli in casa sua (adottati) e almeno un migliaio per le strade di Yaoundé. Dalle sue lacrime è sgorgata una delle tante storie edificanti di questo spicchio d’Africa occidentale.
Tutto accadde grazie all’incontro con padre Maurizio Bezzi, missionario giunto in Africa nel 1991 seguendo le orme di fratel Yves Lescanne, religioso francese che assisteva i minorenni in carcere e cercava di fornire loro una ragione di vita quando tornavano in libertà. Fratel Yves morì da martire, ucciso da uno dei ragazzi aiutati. Padre Maurizio raccolse il testimone e nel 2002 fondò il centro Edimar, vicino alla stazione di Yaoundé, per riempire di senso l’esistenza di ragazzi che si percepiscono come spazzatura dell’umanità e come tale vivono. Per fare questo, ha aggregato educatori, uomini e donne incontrati anche casualmente, nei quali però ha intravisto una luce speciale in grado di illuminare il prossimo.
Un giorno chiamò Mireille e ascoltò la sua disperazione. Poi le disse: «Le strade della città sono piene di ragazzi senza una madre. I figli spirituali non valgono meno di quelli carnali». La donna ne parlò al marito che la prese per pazza: «La carità non è un lavoro, abbiamo speso tanti soldi per farti studiare…». Poi, pur di asciugarle le lacrime, disse: «Vai e prova». Padre Maurizio la mise alla prova la notte stessa, conducendola con sé in una delle strade più malfamate della città. Cominciarono a parlare con quei «ragazzi maledetti». Uno di loro spinse Mireille in un angolo buio e le puntò un coltello contro la pancia: «Non mi piacciono le donne, perché sei venuta qui? Tu sei come mia madre. Adesso mi vendicherò». «Avevo una paura terribile – racconta la donna -, ma mi rendevo anche conto di quanta disperazione dovesse esserci in quel ragazzo. Trovai la forza di spiegargli che anch’io soffrivo e non m’importava di essere uccisa, solo che così non avrebbe ridotto di un briciolo il suo dolore, mentre se avessimo cominciato a parlare magari avremmo capito qualcosa e saremmo stati meglio entrambi». Il ragazzo la scrutò con uno sguardo di sfida, poi allontanò l’arma dal suo ventre: «Va bene, vuol dire che anche tu hai fatto la prigione».
Quella sera padre Maurizio capì che Mireille era la persona giusta e, quando molti anni dopo dovette lasciare l’Africa per motivi di salute, mise il centro nelle sue mani. Nel frattempo la casa della mancata mamma si era riempita di tre bambini adottati, di cui l’ultimo, musulmano, con una storia molto tragica. Muhammad, avvolto in uno zerbino e abbandonato dalla madre appena nato, era cresciuto con il padre su una strada. Non aveva mai posseduto nulla. Il solo fatto di poter dormire in un letto lo rendeva l’essere più felice del mondo. «Grazie a lui, abbiamo scoperto la vera gioia delle piccole cose, anche del nulla».
L’entusiasmo di Mireille è diventato talmente contagioso da spingere il marito a trasferirsi nella capitale. «I ragazzi che alla domenica invitiamo da noi a volte chiedono a Victorien di abbracciarli. “Perché?”, li interrogo io. Rispondono che vogliono provare cos’è l’affetto di un padre. Abbiamo impiegato del tempo persino per farli sedere a tavola. Prendevano il cibo e andavano in un angolo a mangiare come animali impauriti. Non si sentivano degni di stare con noi. Sono felici quando dico loro che puzzano e devono andare a farsi una doccia: un rimprovero li fa sentire importanti; finalmente qualcuno si occupa di loro, loro che hanno conosciuto solo indifferenza». Da tre anni in Italia è stata costruita un’associazione per aiutare Mireille nella lotta quotidiana di strappare i ragazzi dalla strada, anche perché è giunto il momento di avviare progetti formativi. Padre Maurizio e Mireille sono contrari allo sterile assistenzialismo: i ragazzi devono lavorare e provvedere al proprio cibo al proprio tetto (magari aiutati): «Il centro Edimar ha una funzione educativa, qui si viene per imparare, condividere esperienze e apprendere ad amare gli altri».
Pier Luigi Vercesi da Corriere.it