Al summit del 22 e all’Assemblea Generale dell’ONU del 23 settembre scorso i governanti di tutto il mondo hanno fatto la parte dell’orchestrina del Titanic che continuava a suonare, invitando i passeggeri a continuare a ballare, mentre il piroscafo affondava. Forse costoro, come chi li sostiene, contano di trovar posto su delle “scialuppe di salvataggio”, cioè in qualche angolo del pianeta sicuro, da cui tutti gli altri in cerca di salvezza vengano respinti, come già fanno oggi con migliaia e migliaia di profughi ambientali. Ma nessuno potrà venire a recuperarli da qualche altro pianeta e anche loro e le loro “scialuppe” prima o dopo andranno a fondo. Perché oltre una certa soglia, sempre più vicina, la catastrofe climatica in corso sarà irreversibile e colpirà tutti.
Tra quegli orchestrali c’è sicuramente Renzi che, riprendendo il ritornello di Prodi – prova irrefutabile della continuità, in Italia e nel mondo, tra rottamati e rottamatori – continua a suonare “crescita, crescita, crescita” senza accorgersi che è ormai alle porte una “stagnazione secolare”. Ma il controcanto di quell’orchestra vorrebbe essere “sviluppo sostenibile” che, tradotto in italiano, altro non vuol dire che “crescita duratura”, cioè infinita. Le intenzioni sono buone, ma così non si fa che “infiorettare la crescita” (del PIL) – che infinita, come è noto, non può essere e forse è già arrivata al capolinea – con gli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU. In Italia è il programma dell’Asvis (Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile), che ha da poco presentato il suo quarto rapporto annuale. Si cerca cioè di nascondere che quegli obiettivi – mai raggiunti nella precedente edizione dei Millennium Goals – hanno comunque bisogno di una sostanziale crescita del PIL non solo per essere raggiunti, ma anche solo per essere perseguiti. A meno di non rovesciare completamente gli assetti sociali esistenti: proprio quello che Asvis cerca di evitare.
Che è invece l’obiettivo perseguito da Fridays for Future, il movimento suscitato dalle comparse mediatiche (benvenute!) di Greta Thumberg, che grazie alla sua straordinaria diffusione in tutto il mondo ha la possibilità di riunire intorno a un comune obiettivo le tante organizzazioni, per ora separate e disperse, che in vari modi si battono contro la combinazione inestricabile di degrado ambientale e ingiustizia sociale.
Greta ha avuto successo perché la sua comparsa è coincisa con la pubblicazione dell’ultimo rapporto climatico dell’Ipcc, che accorciava di anni (ora solo più dieci) il tempo a disposizione per invertire la rotta nell’uso dei combustibili fossili ed entrambi hanno avuto ascolto perché sono stati accompagnati dal precipitare di eventi climatici (uragani, incendi, scioglimento dei ghiacci, ondate di calore, siccità) che sono sotto gli occhi di tutti e che, in piccolo o in grande, tutti siamo ormai in grado di “toccare con mano”.
Ma ascoltare gli scienziati del clima che da quarant’anni ci avvertono del disastro incombente o i tecnici che hanno messo a punto strumenti e soluzione per ricavare l’energia che ci serve dal sole, per consumarne molto meno a parità di risultati, per coltivare la terra senza avvelenarla, per mettere al sicuro il suolo su cui camminiamo non basta. La conversione ecologica, o anche solo la transizione energetica, non sono fatte solo di scienza e di tecniche. Sono processi che devono coinvolgere un numero enorme di persone, di associazioni, organizzazioni, istituzioni ed essere sospinti, se non dalla maggioranza della popolazione mondiale, per lo meno da diversi miliardi di esseri umani consapevoli della posta in gioco. Per questo la premessa di tutto, come sostiene Extinction Rebellion, da oggi di nuovo in campo in tutto il mondo con azioni esemplari, è “dire la verità”: spiegare e far capire a tutti la minaccia, tra pochi anni irreversibile, che grava su tutto il genere umano e su ciascuno di noi, il poco tempo a disposizione per cambiare rotta e le trasformazioni profonde necessarie per evitare la catastrofe.
Ma ovviamente non ci si può limitare a questo: occorre anche mostrare che “un altro mondo è possibile”, che per realizzarlo è necessario il concorso di tutti e di ciascuno e che non siamo soli: in tutto il mondo ci sono associazioni, movimenti e interi popoli che perseguono, ciascuno nel proprio contesto, lo stesso obiettivo.
Oggi, per un numero crescente di organizzazioni, questo obiettivo si chiama Green New Deal: è il “socialismo” del nostro secolo, completamente diverso dai socialismi dei secoli scorsi. Perché invece dello “sviluppo delle forze produttive” persegue la riconciliazione degli umani con la natura e attribuisce uguale importanza alla lotta contro tutte le manifestazioni del patriarcato; non si accontenta della “nazionalizzazione” dei grandi mezzi di produzione, perché ne persegue una gestione condivisa da parte di ogni comunità. Invece di una pianificazione centralizzata si affida alla negoziazione tra organismi e comunità autonome e al posto del controllo dello Stato da parte di un partito persegue un federalismo che affianchi agli organi della rappresentanza strumenti di partecipazione popolare. Non tutte le persone impegnate nella lotta per clima e ambiente condividono tutti questi punti, ma anche per questo il terreno di confronto, cioè la lotta politica del nostro tempo, non può prescinderne.