La foresta amazzonica è una macro-entità vivente capace di autosostenersi all’interno di un ciclo di produzione di nubi e piogge. Gli oltre 400 miliardi di alberi presenti, tramite l’emissione costante di micro-goccioline producono una grande massa di vapore acqueo, andando a creare a sua volta grandi formazioni nuvolose che si dirigono verso la cordigliera delle Ande, queste precipitando sotto forma di piogge vanno ad alimentare i fiumi e i corsi d’acqua che alimentano tutta l’Amazzonia.
Purtroppo, le recenti previsioni indicano che la foresta pluviale potrebbe smettere di produrre abbastanza pioggia per sostenersi a partire dal 2021.  Se fosse confermata tale previsione avremmo solo due anni per arrestare il fenomeno di distruzione della foresta in atto.

Una distruzione che per dirla tutta va avanti da oltre 40 anni, ma che negli ultimi anni ha subito un drastico aumento.
L’aumento della deforestazione si è accelerato ulteriormente con le politiche di consumo del suolo del presidente di estrema destra del Brasile, Jair Bolsonaro, tanto da poter spingere pericolosamente la foresta pluviale amazzonica a un ” punto d non ritorno” irreversibile entro soli due anni.
Oltrepassato questo punto, la foresta pluviale amazzonica smetterebbe di produrre abbastanza pioggia per sostenersi e inizierebbe lentamente a degradarsi per trasformarsi in una savana molto più asciutta, rilasciando così miliardi di tonnellate di carbonio in più nell’atmosfera, il che aggraverebbe il riscaldamento globale e sconvolgerebbe in modo irrimediabile il clima di tutto il Sud America.

Questo è quanto contenuto in un recente rapporto che ha suscitato polemiche tra gli scienziati del clima. Alcuni credono che il punto di non ritorno sia stimabile tra 15 e 20 anni, mentre altri sostengono che questa previsione a due anni rifletta con molta precisione il pericolo che le politiche foresticide di Bolsonaro sommate al cambio climatico in atto, rappresentino il punto di non ritorno per la sopravvivenza dell’Amazzonia.
Ciò su cui bisognerebbe porre moltissima attenzione di questa previsione non è solo la brevità del tempo, due anni, indicati come limite irreversibile oltre il quale la foresta amazzonica sarà per sempre compromessa, ma anche che tale previsione è stata ripresa ed è contenuta all’interno di un rapporto economico. Un documento programmatico di natura strettamente economica pubblicato questa settimana da Monica De Bolle, membro anziano del Peterson Institute for International Economics di Washington DC.

Se una previsione scientifica viene presa come parametro di riferimento per valutazioni economiche all’interno di settori che si occupano di materia finanziaria, aree almeno finora notoriamente impermeabili e insensibili ai concetti di tutela ambientale e sostenibilità del territorio, bisogna allora porre doppiamente attenzione.

Molto pragmaticamente nella presentazione di tale rapporto economico Monica De Bolle riferendosi alla foresta amazzonica ha così commentato:
“In fondo è uno stock, e quindi come qualsiasi stock lo carichi, lo scarichi, e quando all’improvviso ti accorgi che non ne hai più ecco che devi trovare urgentemente delle soluzioni”
Così ha dichiarato la De Bolle, all’interno del briefing economico, raccomandando caldamente urgenti soluzioni all’attuale crisi.

Bolsonaro ha promesso di poter utilizzare il suolo dell’Amazzonia per consentire l’estrazione di materie prime, coltivazioni intensive, allevamenti, industria del legname. Il tutto naturalmente in barba alle centinaia di comunità indigene che vivono nella foresta e della foresta da migliaia di anni.
“La previsione – secondo il rapporto economico – viene confermata anche confrontando il dato emesso dall’istituto di ricerca spaziale brasiliana INPE, il quale ha riferito che la deforestazione in agosto è stata superiore del 222% rispetto all’agosto 2018. Se venisse mantenuto l’attuale tasso di deforestazione rilevato dall’INPE tra gennaio e agosto di quest’anno, in due anni si porterebbe l’Amazzonia pericolosamente vicino al “punto di non ritorno” ovvero il 2021, anno oltre il quale, la foresta pluviale, stando così le cose non riuscirebbe più a generare abbastanza pioggia per sostenersi”, ha scritto De Bolle.

De Bolle è anche a capo del programma di studi economici latinoamericani presso la Johns Hopkins University e il mese scorso si è rivolto al comitato del Congresso degli Stati Uniti sulla conservazione dell’Amazzonia.
Il congresso degli Stati Uniti, per tutta risposta ha definito la sua previsione una “provocazione”.

“Se Bolsonaro è seriamente intenzionato a sfruttare l’Amazzonia come ha fatto durante l’ultimo anno, senza prestare alcuna attenzione alla sostenibilità o al mantenimento della foresta, il punto di non ritorno si avrebbe all’interno del suo mandato stesso” ha affermato la De Bolle.
Appena un po’ meno “catastrofista” è il parere di Carlos Nobre, uno dei principali scienziati climatici del Brasile e ricercatore senior presso l’Istituto di studi avanzati dell’Università di San Paolo. Nobre ha messo in dubbio i calcoli contenuti nel rapporto economico, secondo cui la deforestazione quadruplicherebbe dai circa 180.000 km2 di quest’anno ai 700.000 km2 entro il 2021.
“Mi sembra molto improbabile un tale aumento della deforestazione, che forse è più un calcolo economico che ecologico”, – ha detto Nobre. – Tuttavia, ha aggiunto: “Stiamo comunque assistendo a un forte aumento della deforestazione, non lo metto in discussione”.

L’anno scorso, Nobre aveva sostenuto in un articolo scritto con il celebre biologo americano della conservazione Thomas Lovejoy che il punto di svolta dell’Amazzonia potrebbe verificarsi nell’Amazzonia orientale, meridionale e centrale quando il 20-25% della foresta pluviale venisse abbattuto – in un primo momento previsto tra 20-25 anni, ma che lo stesso Nobre allora ha in seguito anticipato la sua previsione di circa cinque anni stimandolo fra 15-20 anni.

“L’Amazzonia nel suo insieme è già stata disboscata per una percentuale pari al 17%, quindi quando si calcola al tasso attuale di deforestazione, questo 20% al 25% verrebbe raggiunto in 15-20 anni”, ha affermato Nobre, aggiungendo anche – “spero tanto che tale rapporto abbia torto, perché se avesse ragione, di fatto significherebbe la fine del mondo così come lo conosciamo. ”

Thomas Lovejoy, il professore esperto della George Mason University di Fairfax, in Virginia, consultato a sua volta su tale rapporto ha però affermato che la proiezione nel rapporto della De Bolle potrebbe anche avverarsi perché il trend del riscaldamento globale in atto, induce anche a un aumento spontaneo della deforestazione e a un aumento dell’estensione e della durata degli incendi amazzonici, creando una “sinergia negativa” che sta accelerando la distruzione della foresta, citando infine la siccità degli ultimi anni come segnale di avvertimento.

“La siccità degli ultimi anni secondo Lovejoy sono i primi bruttissimi segnali dell’avvicinarsi a questo punto di non ritorno – rappresentando il fenomeno con una curiosa immagine – “Una foca che cerca di tenere in equilibrio una palla di gomma sul naso per non farla cadere… l’unica cosa sensata da fare è smettere subito di deforestare e al contrario procedere al rimboschimento per ripristinare quel prezioso margine di sicurezza.”

La deforestazione aveva iniziato a crescere di nuovo sotto il governo di Dilma Rousseff nel 2013, ciò dopo nove anni di declino dal 2004 al 2013, e adesso ha accelerato ulteriormente in questo anno di presidenza di Bolsonaro.

Tra gli altri impegni previsti dall’accordo sul clima di Parigi, firmato all’epoca dall’ex presidente Dilma Rousseff, il Brasile aveva accettato di rimboschire 12 milioni di ettari di foresta e di porre fine alla deforestazione illegale entro il 2030.

Claudio Angelo rappresentante dell’Osservatorio sul clima – una rete di gruppi ambientalisti senza fini di lucro – ha dichiarato di ritenere che i calcoli della de Bolle forse siano un poco troppo pessimisti, ma ha elogiato le altre raccomandazioni contenute nel suo rapporto.
Il sito ecologista Mongabay.org che raccoglie le opinioni, le osservazioni e le valutazioni di molti esperti ecologisti ha riferito il mese scorso che per il Brasile sarà sempre più improbabile che raggiunga gli obiettivi degli impegni che aveva sottoscritto con l’accordo di Parigi.

Questi accordi includevano inoltre l’espansione del fondo Amazon, che finanzia progetti sostenibili per la foresta pluviale e che avrebbe dovuto includere fra i suoi finanziatori gli Stati Uniti e altri paesi, di modo che il Brasile non dovesse finanziare la protezione della foresta pluviale praticamente da solo. Gli impegni presi però per finanziare il fondo Amazon sono stati disattesi, che in pratica veniva  finanziato soltanto da Norvegia e Germania, ma entrambi i paesi, essendo rimasti i soli a finanziarlo, hanno sospeso i pagamenti ad agosto.

Monica De Bolle nel suo rapporto ha affermato che il Brasile per trovare una soluzione efficace e rapida per fermare la deforestazione, basterebbe che vincolasse il credito rurale alle aziende agricole, finanziato sia dalle banche a partecipazione pubblica che da quelle private, per avere credito dover dimostrare di essere conformi alle leggi ambientali e legate alla tutela di sostenibilità della foresta. “Questo sarebbe un grosso deterrente per le aziende agricole e i proprietari terrieri a conservare la foresta o quanto meno a non disboscare e bruciare “, ha scritto la De Bolle nel suo rapporto.

Claudio Angelo infatti ha dichiarato che “i punti suggeriti dal rapporto della De Bolle, sono pratici e realizzabili e che avrebbero un effetto immediato per fermare la deforestazione amazzonica in atto”, aggiungendo infine “l’unica nota positiva di tutta la follia delle politiche di Bolsonaro è che per lo meno è riuscito a far parlare la gente dell’Amazzonia”.

Quale che sia la previsione più corretta del tempo rimasto per arrivare punto di non ritorno, la cosa più sensata resta quella di fermare immediatamente la deforestazione amazzonica e contemporaneamente procedere urgentemente al rimboschimento delle aree che già hanno subito più danni.