Prosegue, a Bruxelles, il « Festival della Solidarietà », che è solamente una delle campagne e degli eventi promossi dalla Città capitale d’Europa sul tema della solidarietà internazionale.
Tra gli altri, si elencano i gemellaggi con città del Marocco e del Congo, il sostegno al « commercio equo e solidale », l’istituzione di un Consiglio consultivo per la solidarietà internazionale (CCSI), un piccolo sostegno economico ai progetti di cooperazione ed educazione nei Paesi in via di sviluppo.
Dopo « Nous venons en amis », ieri sera ho assistito alla proizione di « La vita di una piccola culotte e di quelle che le fabbricano » (« The Story of a Panty and of Those Who Make It » ). Il documentario, prodotto da Lea, è stato proiettato in una sala del centralissimo Cinéma des Galeries davanti a circa 200 spettatori ed alla presenza sia di una responsabile della ONG achACT che della regista e sceneggiatrice del documentario, la giovane belga Stéfanne Prijot.
Il film, della durata di circa 50 minuti, uscito lo scorso anno, mette il consumatore di fronte a quelle responsabilità etiche che non vorrebbe conoscere. Perchè costa cosi poco l’abbigliamento? Dove viene prodotto? Quanto sono pagate le lavoratrici dell’industria tessile e quali sono le loro condizioni di lavoro e di vita? Quali le responsabilità etiche delle multinazionali delle Grandi Marche?
Dietro una piccola culotte, una mutanda, c’è sempre il sacrificio di una ragazza, di una donna. Viene costretta ad abbandonare precocemente gli studi e, per un tozzo di pane (appena 36-130 euro al mese) insufficiente pure a sopravvivere, trasformata in una nuova schiava nella raccolta e lavorazione del cotone.
Nei campi in Uzbekistan, nelle fabbriche di filatura in India o nelle tintorie in Indonesia la sitazione è sempre la stessa. Donne costrette ad alzarsi alle 4 del mattino per svolgere le faccende domestiche (lavare a mano gli indumenti, lavare e riordinare la loro povera casa, preparare la colazione ai figli) e poi, alle 6, recarsi al lavoro dal quale ritornano solo 13-14 ore dopo.
In India, se possibile, la situazione è ancora peggiore. Qui le ragazze vengono letteralmente detenute, per 2-3 anni, dentro le fabbriche ed escono solo in cambio della detenzione, a loro volta, di una sorella.
Lavorazioni, nei campi e nelle fabbriche, senza alcun rispetto per la salute dell’ambiente e delle lavoratrici: acque delle lavorazioni chimiche riversate nei campi ad inquinare le falde acquifere, nessuna tutela durante l’uso delle sostanze chimiche (con conseguenti tumori, …).
Il consumatore ha scelta in tutto questo? No. Oggi, con la globalizzazione, ogni prodotto tessile o calzatura, è realizzato in Asia, Africa o nell’Europa dell’Est (Bulgaria, Romania) nelle condizioni descritte.
AchACT, quindi, spinge per azioni a livello superiore, governativo e sovrannazionale, per sostenere i Diritti Umani delle lavoratrici dell’industria tessile. In tal senso ha lanciato l’hashtag #DroitsHumains, degli appelli al governo belga, ed una campagna d’informazione che include la proiezione del film « La vita di una piccola culotte e di quelle che le fabbricano ».