Eppure i segni di squilibrio c’erano già tutti. Fin da quando venne fotografato suo malgrado nel baretto più infame di Brasilia, occhiali neri (per non farsi riconoscere?), un tavolino dietro alle casse di birra, in fondo a destra proprio accanto alla porta del cesso. Davanti a lui un avvocato: “Noi che lavoriamo nello stesso ambiente ci si conosce tutti e per educazione gli ho pagato da bere”.
Passi il bar infame, passi il tavolino di fianco al cesso, passino pure gli occhiali scuri, ma l’incontro casuale con l’avvocato della parte avversaria quando sei il Procuratore Generale della Repubblica è alquanto strano: stranissimo.
Tra le sue mani sono passati i processi più importanti, l’impeachemet della Presidente Dilma Rousseff e l’inchiesta che ha portato Lula in prigione. Baretto infame e tavolino accanto al cesso.
Passano gli anni e il nostro Procuratore Generale della Repubblica occhiali neri, adesso un privato cittadino, rilascia un’intervista ai giornali più importanti nella quale avvisa che sta per uscire un libro in cui racconterà fatti e fattacci, il mondo segreto del potere: “Entrai nella sala armato, la mano in tasca stringeva la pistola carica. Dovevo lavare col sangue l’onore di mia figlia, sulla quale pesavano intollerabili insinuazioni: dicevano che per essere, appunto, mia figlia, come avvocata qual è non avrebbe potuto occuparsi del processo in cui era accusato colui che aveva sostituito Dilma nella presidenza del paese grazie a un impeachment fraudolento con l’ausilio di grandi imprese coinvolte nella compra-vendita dei voti parlamentari. Dovevo lavare il suo onore col sangue. Entrai armato e pronto ad uccidere l’autore delle illazioni. Gli avrei sparato in faccia e in seguito mi sarei suicidato. Ero a due metri da lui e da quella distanza è impossibile sbagliare. Ma la mano si bloccò, un segno divino. Me ne andai a casa”.
La sala nella quale avvenne (o meglio, nella quale non avvenne il fatto) è il plenario della Corte Suprema. La vittima designata è un giudice della stessa corte, da sempre avversario del Procuratore Generale della Repubblica.
Ormai tutta l’impalcatura che ha portato all’impeachement di Dilma Rousseff e all’arresto di Lula sta crollando miseramente. Le rivelazioni della agenzia “The Intercept” mostrano una palude di malaffare: accordi tra i giudici e gli stessi procuratori per la fabbricazione di prove false con cui ricattare e accusare chiunque. Oggi gli stessi procuratori che misero Lula in catene firmano una petizione in cui ne chiedono la scarcerazione, ossia, in cui sollecitano che il prigioniero possa usufruire dei benefici previsti dalla legge: compiere il resto della pena in regime semi-aperto munito di cavigliera elettronica per controllarne gli spostamenti. Una richiesta ad hoc, non per dimostrarsi magnanimi, ma per cercare di alleggerire la loro posizione ormai diventata insostenibile.
La miseria in cui è sprofondato il paese, la crisi morale e economica provocata da una magistratura corrotta ha favorito l’ascesa del neofascismo in cui viviamo. Adesso i procuratori suggeriscono la scarcerazione del vecchio leader, ma lui non accetta alcun patto, alcuna trattativa: esige che venga riconosciuta la sua innocenza.
Lula scrive alla Nazione: “Non accetterò mai di scambiare la mia dignità per mia libertà. I procuratori dovrebbero chiedere scusa al popolo per i danni arrecati, per i milioni di disoccupati, dovrebbero chiedere scusa alla mia famiglia e a me per il male che hanno fatto alla Democrazia e alla Giustizia. Voglio che sappiano che non accetto un volgare baratto tra i miei diritti e la mia libertà. Ho già dimostrato la falsità delle accuse a me rivolte. Sono loro, e non io, i veri carcerati, prigionieri delle menzogne che hanno raccontato al Brasile e al mondo. Davanti alle arbitrarietà commesse dai procuratori e dal giudice Sergio Moro (oggi ministro della giustizia del governo Bolsonaro, ndr) tocca alla Corte Suprema correggere gli errori per ristabilire la giustizia indipendente e imparziale, un diritto di ogni cittadino. Sono pienamente cosciente delle mie decisioni e continuerò a lottare senza sosta fino a quando saranno ripristinate la verità e la giustizia”.
Con queste parole, il vecchio presidente rifiuta il “favore” di un gruppuscolo di procuratori senza scrupoli ma ormai con l’acqua alla gola, una affermazione di coraggio e solenne dignità.
Un verso dell’inno nazionale dice: “Patria amada, verás que um filho te não foge à luta”. Patria amata, vedrai che un tuo figlio non fugge dalla lotta! È proprio così.
Viva o Brasil!
Viva Luís Inácio Lula da Silva!