Un anno dopo l’esecuzione extragiudiziale di Jamal Khashoggi, le autorità saudite continuano a reprimere la libertà di espressione e non mostrano alcun segnale della volontà di individuare e punire i responsabili di quell’omicidio. Sono almeno 30 i casi, documentati da Amnesty International, di prigionieri di coscienza condannati a pene da cinque a 30 anni di carcere solo per aver esercitato i loro diritti alla libertà di espressione, associazione e manifestazione pacifica.
Tra questi vi sono Mohammad al-Qahtani, fondatore dell’Associazione saudita per i diritti civili e politici, condannato a 10 anni e Waleed Abu al-Khair, avvocato e difensore dei diritti umani, che di anni di carcere ne sta scontando 15. Particolarmente forte è l’accanimento contro le attiviste per i diritti umani. Nonostante alcuni recenti rilasci, Loujain al-Hathloul, Samar Badawi, Nassima al-Sada e Nouf Abdulaziz sono detenute arbitrariamente dal maggio 2018. Sei mesi fa, inoltre, sono stati arrestati almeno 14 esponenti della società civile, scrittori e parenti delle attiviste in carcere.
La pena di morte continua a essere usata come arma politica nei confronti della minoranza sciita, come nel caso dell’esecuzione di massa di 37 uomini nell’aprile 2019 e di quella di altre 14 persone accusate di aver preso parte a manifestazioni contro il governo tra il 2011 e il 2012: uno di loro, Abdulkareem al-Hawaj, aveva 16 anni al momento dell’arresto. Amnesty International continua a battersi per scongiurare l’esecuzione di tre minorenni al momento del loro presunto reato: Ali al-Nimr, Dawood al-Marhoon e Abdullah al-Zaher.
Il processo in corso
Jamal Khashoggi venne strangolato poco dopo essere entrato nel consolato saudita di Istanbul, in Turchia, il 2 ottobre 2018. Un rapporto della Relatrice speciale Onu sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie e arbitrarie, Agnes Callamard, ha concluso che il giornalista fu vittima di “una esecuzione extragiudiziale di cui, sulla base delle norme sui diritti umani, lo stato saudita è responsabile”. Le autorità saudite non hanno cooperato con la Relatrice durante le sue indagini.
Il processo nei confronti di 11 imputati, sospettati di essere coinvolti nell’omicidio di Khashoggi, è iniziato nel gennaio 2019 ma non è aperto al pubblico se non a diplomatici ed è privo di ogni forma di trasparenza: non si sa se gli imputati abbiano assistenza legale e, soprattutto, non è noto dove si trovino i resti del corpo di Khashoggi e se siano mai stati consegnati alla famiglia. Cinque degli imputati rischiano la condanna a morte.
In un documentario andato in onda il 29 settembre il principe della Corona Mohamed bin Salman si è assunto per la prima volta la responsabilità dell’omicidio di Khashoggi, affermando che “è avvenuto sotto la mia supervisione”.
“Le parole di bin Salman saranno l’ennesimo maldestro tentativo di fare pubbliche relazioni se non saranno seguite da azioni significative, concrete e immediate, come rilasciare tutti i prigionieri di coscienza e consentire l’ingresso nel paese a osservatori indipendenti sui diritti umani che possano assistere e riferire sul processo in corso per l’uccisione di Khashoggi”, ha dichiarato Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International.
Ulteriori informazioni
In occasione del primo anniversario dell’uccisione di Khashoggi, attivisti sauditi in esilio sostenuti da Amnesty International lanceranno una serie di podcast intitolata “La grande Arabia Saudita”, sulle varie questioni relative ai diritti umani nel paese.
Sempre oggi 2 ottobre, Amnesty International organizzerà iniziative di fronte ad ambasciate e consolati dell’Arabia Saudita a Istanbul e Washington DC mentre a Bruxelles, Amsterdam e Oslo strade e canali nei pressi delle sedi diplomatiche saranno simbolicamente intitolati a Jamal Khashoggi.