L’Argentina non affonda, la sua gente s’è forgiata nelle tempeste, le teme meno dell’inerzia che tutto infradicia e confonde; nell’immediato rischia però di andare alla deriva. Spinta dall’onda lunga della politica finanziaria del governo neoliberista di Mauricio Macri, concretamente dalla sua gestione del debito pubblico che si aggira ormai sui centomila milioni di dollari e condiziona interamente economia e vita quotidiana, materialità e stati d’animo degli argentini in profonda sofferenza. Ne sommava 144mila, quando nel dicembre 2001 l’allora capo dello stato, il leader dell’Union Civica Radical (UCR) Fernando de la Rua, diede forfait e lasciò precipitare il paese nel più rovinoso default dei nostri tempi.
Bruciato venti giorni giorni addietro Nicolás Dujovne nella disfatta delle primarie, il nuovo ministro delle Finanze, Hernan Lacunza, ha avviato in emergenza una ristrutturazione del debito con il Fondo Monetario Internazionale (FMI), il creditore numero uno, con i 56mila milioni di dollari concessi in stand-by, cioè a rate. Una delle quali -5mila quattrocento milioni- già più volte sollecitata ma ancora non resa disponibile dal Fondo, che adesso s’è fatto prudente e prima vuol vedere come e quando riavrà i suoi milioni. Modi e soprattutto tempi dei rimborsi dovranno poi essere rinegoziati per i buoni del Tesoro e per tutti gli altri titoli di stato. Tardivamente si tenta così anche di frenare la fuga di capitali, che secondo stime attendibili ha lasciato scappar via una quarantina di miliardi solo negli ultimi mesi (l’equivalente di una corposa finanziaria italiana).
I termini di queste trattative non sono stati resi noti. Il governo non ha mai coinvolto il Parlamento nelle sue politiche. Né se ne sente obbligato ora dal fair-play istituzionale, dopo che ha dovuto farsene carico interamente per il rifiuto dell’opposizione peronista a corresponsabilizzarsi di decisioni che ha sempre osteggiato. E’ un altro elemento di divisione; ma anche di chiarezza nella retorica dualista che da decenni sbatte il paese tra la Scilla del neoliberalismo periodicamente militarizzato o fallimentare e il Cariddi del populismo, social-statalista nella versione kirchnerista 2003-15 (che con Ernest Laclau ha mescolato arditamente Hegel e Gramsci) e adesso riattualizzato in senso liberaldemocratico dalla candidatura presidenziale del moderato Alberto Fernandez, con una Vice indubbiamente di peso come l’ex presidentessa Cristina.
Più emblematica degli usurati clichè che stancamente oppongono l’utopia autarchico-autoritaria del peronismo alla presunta razionalità dei mercati globali, la metafora omerica raffigura la tormentata navigazione del grande paese sudamericano verso le elezioni del 27 ottobre, i suoi veri pericoli e difficoltà. I violenti scossoni che di nuovo sommergono la parità del peso contro il dollaro (oltre 60 a 1) e il rischio paese (che supera livello 2mila), scaturiscono dalla medesima crisi che da quasi 20 mesi fabbrica povertà, dissanguando il sistema creditizio interno e conseguentemente le piccole e medie imprese che ne dipendono, la loro capacità di dare occupazione e produrre (con l’inflazione e il tasso d’interessi più alti del continente). Mentre il voto delle cosiddette primarie dell’11 scorso ha congelato la Casa Rosada e gli altri palazzi del potere, in largo anticipo sulle presidenziali.
E’ vero, come puntualmente ripetono tanti cittadini, che l’Argentina è penalizzata dalla mancanza di una visione condivisa di progetto-paese, di società, d’un quadro di valori e principi da cui far derivare l’azione politica, affinchè non divenga pura lotta di potere. E Macri non ne è il primo e unico responsabile, ciò che non ne riduce minimamente le responsabilità. Ma altrettanto evidentemente l’opposizione ha ottime ragioni nel non voler condividere adesso una bancarotta da tempo annunciata, senza neppure l’impegno macrista ad evitare l’avvelenamento definitivo dei prossimi sessanta giorni di campagna elettorale. Sarebbe (è) invece un buon momento per allentare quanto meno la presa sul paese della storica tenaglia tra le politiche monetariste in perenne affanno di finanziamento dall’estero (dove il grande capitalismo argentino trova da sempre puntuale rifugio) e i rischi di sclerosi della ragion di stato populista.
Va in questo senso la disponibilità al dialogo più ampio possibile del candidato peronista Alberto Fernandez, che i pronostici vedono unanimemente alla Casa Rosada nel prossimo dicembre e con il quale dall’FMI agli ambasciatori europei chiedono d’interloquire. Non a caso la sua coalizione si chiama “Fronte di Tutti”, sebbene in una democrazia repubblicana nessuno ha né è auspicabile che abbia la possibilità e neppure il desiderio di rappresentare tutti i diversi interessi che vi devono convivere e svilupparsi. A sostanziarne il carattere e la sensibilità popolari dichiarati dovrebbe essere un richiamo programmatico ai diritti dei cittadini, che domandano regole capaci di proteggere il paese e la sua esistenza dai conflitti d’interesse e dall’eccessiva dipendenza dai mercati internazionali troppo spesso dominati dalla speculazione.
Articolo di Livio Zanotti