Le Bahamas sono state devastate dall’uragano; migliaia i dispersi, un numero enorme di morti, condizioni disastrose. L’ennesima tragedia che verrà presto dimenticata; eppure, ciò che è accaduto là oggi può accadere ovunque…
Le Bahamas erano un arcipelago di settecento isole, alcune disabitate, altre popolose, nell’Oceano Atlantico, vicino alla costa sud orientale degli Stati Uniti. Lo sono ancora. Erano isole ricche, arricchite dal turismo e dal fatto di essere un paradiso fiscale, dunque arricchite dal riciclaggio e dall’evasione fiscale. Ricche forse non lo saranno più. Lo spaventoso uragano che le ha colpite, con venti a trecento chilometri l’ora, uno dei tanti frutti del disastro climatico e dell’aumento delle temperature del mare, ha spazzato via in una manciata di ore tutto ciò che gli esseri umani avevano costruito, case e chiese, strade e ospedali, aeroporti e linee elettriche, camion, auto, barche. Ha spazzato via migliaia di persone, famiglie intere con le loro case; ha spazzato via alberi, terra, animali. Oggi ci sono quasi ottantamila persone senza più una casa, senza più mobili, elettrodomestici, stanze, letti, biancheria, stoviglie, indumenti, giocattoli e ricordi: tutto quello che una casa è, sicurezza, conforto, storia di vite. Molti di loro hanno perso figli o genitori, fratelli sorelle amici, cani o gatti. Spazzati via in una manciata di ore.
Su alcune di quelle isole non c’è più niente di ciò che serve a una vita umana, ci sono distese di macerie che sono anche rifiuti, perché nel mondo moderno la maggior parte di ciò che si produce, compresi gli edifici, è fatta di materiali tossico-sintetici. Anche per questo si producono gli uragani, si riscalda il pianeta. Ci sono cadaveri sotto le macerie e, senza strade, non ci sono i mezzi per recuperarli. I cronisti giunti sul posto dicono che il lezzo dei cadaveri in decomposizione si sente ovunque. Non sapremo mai quanti sono i morti. I dispersi sono migliaia ma, se nessun parente li cerca, per ora non risultano dispersi. Ci vorranno mesi, forse anni, perché le cosiddette “autorità” possano fare un censimento di coloro che non si troveranno mai più, trascinati via dal mare; oltre che dei corpi ritrovati giorno per giorno. E noi non lo sapremo. Perché?
Perché le notizie sui disastri ambientali sono soggette a una rigida censura; perché i medianellacorrente sono di proprietà e al servizio di coloro che temono più della morte la diminuzione dei nostri consumi e dei loro profitti, la presa di coscienza e la consapevolezza dei popoli. Quelli che forse avevano investito nei resort e nei campi da golf delle Bahamas, e che stanno già pensando a come recuperare quelle “perdite” con qualche altro investimento e con le sovvenzioni e gli “aiuti” dei governi loro complici e succubi.
Ma ciò che è successo laggiù può, nella stessa forma o in altre, accadere ovunque. E’ solo l’ennesima tragedia in una serie ormai continua di tragedie provocate dal cambiamento climatico superveloce, cioè dallo “sviluppo” di una società e un’economia basate sullo lo sfruttamento, la competizione, l’ostentazione, la guerra e la scalata sociale, la ricerca furiosa del profitto e del potere. La nostra malattia diventa assalto alla natura, vista soltanto in questa ottica: risorsa da sfruttare oppure ostacolo da togliere di mezzo. Ma la natura non è altro che la vita, la nostra vita ne fa parte e, se la distruggiamo, ci distruggiamo. Assieme alle terre e ai mari che muoiono, moriamo anche noi, e tutto ciò che avevamo costruito crolla come un castello di carte.
La tragedia delle Bahamas verrà presto dimenticata, ci aiuteranno a dimenticarla i “mezzi di rimbambimento di massa”, che hanno questo fine prioritario. Ma, se rimbambiti non siamo, dimostriamolo proclamando la nostra personale emergenza climatica: nelle scelte quotidiane, nei consumi, nei comportamenti e nella lotta contro spreco, inquinamento, rapina della natura; nei comitati e nelle associazioni ambientaliste e nel fare la spesa. E nello scendere in piazza il 27 settembre nel terzo sciopero mondiale contro il cambiamento climatico.