L’ultima in ordine di tempo sul panorama pre-elettorale israeliano è di pochi giorni fa, 26 Agosto, quando la Corte Suprema di Israele ha negato la candidatura di due esponenti dell’ultra-destra sionista, Benzi Gopstein e Baruch Marzel, figure note all’opinione pubblica israeliana. Si tratta di due candidati della formazione Otzma Yehudit (Potere Ebraico), formazione sionista suprematista, appartenente all’ultra-destra del panorama politico ebraico, non semplicemente per le sue posizioni nazionaliste (che, d’altra parte, caratterizzano anche altre formazioni della scena politica israeliana), ma soprattutto per il carattere radicale delle proprie rivendicazioni, che spaziano dalla richiesta di garantire il “carattere ebraico” dello Stato di Israele alla richiesta di una vera e propria espulsione di massa di (veri o presunti) nemici d’Israele, passando per la richiesta, cui purtroppo non si associa solo la loro voce, di rivendicare l’annessione integrale della Cisgiordania, dove vivono più di 2.5 milioni di palestinesi. Tanto per celebrare qualche riferimento storico, l’odierno Otzma Yehudit è l’erede della storica Kach, bandita nel 1994, le cui posizioni ultra-radicali erano ben rappresentate dal loro parossistico rifiuto della democrazia (considerata concezione occidentale contraria alla Halakhah, la legge religiosa ebraica) e dalla loro visione fondamentalista di «stato religioso» (Israele non sarebbe dovuto essere altro che uno stato teocratico fondato sulla Halakhah).
In Israele, dunque, si torna alle urne, fatto, peraltro, del tutto singolare nella sua storia: già lo scorso 9 aprile si sono tenute elezioni politiche e, al netto della sostanziale parità tra i due blocchi principali, la destra del Likud (che aveva candidato ancora Benjamin Netanyahu alla carica di primo ministro) e il «grande centro» di Blu Bianco – Kahol Lavan (aggregazione politica di recente formazione, con Benny Gantz candidato alla carica di primo ministro), che avevano entrambi conseguito poco più di un milione e centomila voti, pari al 26% delle preferenze, corrispondenti a 35 seggi ciascuno sui 120 che compongono il parlamento unicamerale (la Knesset), si era riuscito a costituire in parlamento una maggioranza di destra, grazie al buon risultato delle altre formazioni politiche della destra israeliana, sia laiche, come Ysrael Beiteinu, sia religiose, come lo «Shas» (sefardita) e il «Giudaismo Unito della Torah» (askenazita). Ma la maggioranza, costituitasi in parlamento, non si è rivelata capace poi di vincere la sfida del governo, a causa delle contraddizioni esplose all’interno della destra israeliana, sia tra il Likud e gli alleati minori, sia tra i partiti laici e religiosi, sul tema assai divisivo dell’obbligo del servizio militare per gli Haredim, che ne sono attualmente esenti. È stato proprio Ysrael Beiteinu, d’altra parte, come ha ricordato Ronen Hoffman, professore di Scienze Politiche a Herzliya, a «non aderire al governo proposto da Netanyahu dopo le ultime elezioni, impuntandosi su alcune questioni legate al rapporto stato/religione (tra cui la proposta di legge sulla leva obbligatoria dei giovani Haredim, ultra-ortodossi)»; decisione delicatissima, in prospettiva, se si considera che, secondo altri dati, proprio gli Haredim potrebbero presto diventare il 20% della popolazione di Israele.
Ciò che si muove «a destra» e «a sinistra» del quadro politico israeliano, di qui all’appuntamento elettorale del 17 settembre, non è insignificante e per la prima volta mette in discussione la centralità del Likud nel panorama politico israeliano e la fiducia di Netanyahu di essere confermato primo ministro. A destra, la cosiddetta Nuova Destra, che alle elezioni del 9 aprile non aveva raggiunto il quorum, si è unita a Casa Ebraica e a Unione Nazionale per formare il partito della «Destra Unita». A sinistra, la nascita del «Campo Democratico», che vede insieme il Meretz (sinistra sionista), il Partito Democratico Israeliano, da poco creato dall’ex primo ministro Ehud Barak e da Stav Shaffir, uscita dal Partito Laburista, potrebbe costituire un’alternativa a Blu Bianco, ma anche un possibile alleato, in una futura coalizione che provi a orientare al centro, contro il Likud, l’asse della politica israeliana. La novità è rappresentata da un nuovo progetto di «unità a sinistra», con la formazione della «Lista Congiunta», con Hadash (il Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza, i comunisti israeliani), Balad, Ta’al e la Lista Araba. Inutile ribadire che i sondaggi, tanto più dopo gli esiti del 9 aprile, lasciano il tempo che trovano; meno irrilevante richiamare lo sfondo su cui il voto si colloca e l’importanza di un’affermazione delle forze progressiste ed orientate alla pace: è appena di pochi giorni fa (1 Settembre) la dichiarazione di Netanyahu di volere «annettere ad Israele» l’intera Cisgiordania occupata. Il tutto, sullo sfondo della perdurante occupazione coloniale, alla luce della nuova, drammatica, escalation a Gaza, e alle viste del cosiddetto, assai poco promettente, «Piano Trump».