O fim do mundo
Come già avvenuto per Vitalina Varela, la comunità di immigrati provenienti da Capo Verde e uno slum di Lisbona sono i protagonisti di O fim do mundo, una produzione capoverdiana/portoghese del regista Basil Da Cunha inserita nel concorso ufficiale, ambientata a Reboleira, nell’estrema periferia di Lisbona.
Il titolo è fortemente simbolico; lo slum è rappresentato come una realtà a sé, ai limiti del mondo, del quale non condivide alcun beneficio, ma indirettamente ne subisce l’arbitrio attraverso la demolizione delle case ad opera di squadre di operai che giungono da “fuori” scortati dalla polizia. Per lo più sono case diroccate, ma ancora abitate e fortemente inserite in quel mondo chiuso in sé, autocentrato e con proprie regole qual è Reboleira; come conseguenza della relocation quella popolazione dovrà poi essere spostata, sospinta verso mete ignote.
Spira, un giovane appena uscito dal riformatorio, rientra nel suo quartiere: qui a una quotidianità con ampi spazi di socialità corrispondono gerarchie informali rigide e precise, domina la legge del più forte, la violenza delle gangs, in un mondo fatto di povertà, miseria e assenza di qualunque istituzione. La vita di Spira sembra destinata a girare su se stessa, in un circuito chiuso che non lascia alternative se non nuovi reati e nuove condanne.
Anche l’amore non può sottrarsi a questo destino e per collocarsi in una dimensione romantico-sentimentale può ricorrere solo ad una rappresentazione fantasiosa simboleggiata da un cavallo bianco che promette una libertà di movimento e di pensiero che nella realtà non esiste. Non si manifesta alcuna speranza collettiva se non quella della vittoria del Benfica, la squadra del cuore, attorno alla quale si concentrano gli entusiasmi dell’intera comunità. A Spira resta solo la ribellione individuale contro i processi di gentrificazione, ribellione che non nasce da una consapevolezza sociale, ma dal desiderio di evitare la distruzione della casa della ragazza amata. Un primo passo che lo conduce alla distruzione dei macchinari utilizzati per abbattere le case del quartiere: un falò solitario che incendia il cielo di Lisbona.
Un film dove non ci sono attori professionisti, ma dove gli abitanti del quartiere interpretano se stessi; una pellicola che, mentre mostra agli spettatori il volto feroce e spesso sconosciuto delle nostre grandi metropoli, nella sua realizzazione ha giocato un ruolo di formazione politico-sociale per gli stessi protagonisti della storia narrata.
A Febre – concorso internazionale
Regista: Maya Da-Rin, Brasile – 2019 – 98’ – v.o. portoghese/tucano
Il Pardo per la migliore interpretazione maschile è andato a Regis Myrupu protagonista di A febre di Maya Da-Rin, artista e regista brasiliana, inserito nel concorso internazionale.
Justino ha 45 anni, appartiene al popola Desana e lavora a Manaus come guardia al porto, mentre sua figlia lavora come infermiera nell’ospedale locale ed è intenzionata a studiare medicina trasferendosi a Brasilia.
Manaus sorge sulle rive del Rio Negro nei pressi della confluenza nel Rio delle Amazzoni, è una città portuale di oltre due milioni di persone e costituisce una delle principali porte d’entrata in Amazzonia e una Free Trade Zone, nella quale lo stato brasiliano, abbassando le tasse, attira grandi industrie nazionali e multinazionali. Qui Justino vive attraversato da un durissimo conflitto interiore tra la condizione lavorativa che gli procura il necessario per vivere e il richiamo alle proprie radici, alla vita indigena inserita nella natura. Questo conflitto si fa ancora più lancinante quando, preparandosi la figlia alla partenza per Brasilia per studiare ed acquisire una professione, lui non ha altro motivo per trattenersi in città: il suo compito, garantire alla figlia un futuro, è terminato e ora è libero di tornare a quella che dentro di lui è sempre la stata la vita alla quale era destinato.
Non c’è conflitto tra la figlia che andrà a vivere nella metropoli e il padre che tornerà nella selva. Ognuno dei due conosce il proprio destino, ambedue conoscono la direzione verso la quale corre la storia umana e non solo in quella regione. La sofferenza è tutta dentro il corpo e lo spirito di Justino, testimoni e vittime del cambiamento epocale imposto da scelte economiche globali.
La misteriosa belva che uccide gli animali e delle cui gesta dà periodicamente notizia la televisione assurge a rappresentazione simbolica di uno sviluppo non rispettoso della vita umana.
Un film di grande poesia, che descrive con maestria non solo il travaglio interiore, ma anche il rapporto tra l’uomo e la natura, misterioso mondo da rispettare e con il quale dialogare.
La Paloma y el Lobo – Concorso Cineasti del presente
Regista: Carlos Lenin, Messico – 2019 – 106’ . v.o. spagnolo
Tra le pellicole inserite nella sezione Cineasti del Presente La paloma y el lobo, del regista messicano Carlos Lenin, ha avuto il premio Swatch Art Peace Hotel Award. Un film che racconta l’amore di due giovani messicani che lavorano in condizioni precarie in due fabbriche situate non lontano dal confine con gli Stati Uniti. La loro condizione di povertà precipita quando perdono entrambi il lavoro; tutto diventa più complicato a cominciare dal riconoscere a se stessi un’identità sociale: quale? Il mondo esterno è fondato sulla velocità e sulla competizione, loro cercano di difendere il loro amore in una comunicazione che diventa sempre più difficile e silenziosa, tra paure e ansie. Lobo si chiude in se stesso, il suo sguardo è rivolto a un passato che non riesce ad affrontare. Dentro gli scenari di una globalizzazione feroce il loro amore si consuma lentamente, come una candela.
Un film certamente toccante nelle immagini, ma anche duro, cupo e forse con qualche situazione di troppo nel racconto.