Quasi dieci anni fa, alla Conferenza Onu sui cambiamenti climatici COP16 di Cancun, le multinazionali aderenti al “Consumer Goods Forum” (CGF) si erano impegnate a fermare la deforestazione attraverso l’approvvigionamento “responsabile” dei quattro prodotti più strettamente associati alla distruzione delle foreste su larga scala: olio di palma, cellulosa, soia e allevamento bovino. Tutti tranquilli quindi? Non proprio. Secondo l’ultimo rapporto di Greenpeace, “Countdown to extincion”, in dieci anni queste stesse multinazionali del cibo hanno devastato un’area forestale grande una volta e mezzo l’Italia, per sostituirla con piantagioni di soia, palma da olio e allevamenti di bestiame. Per questo negli scorsi mesi la ong ha scritto ad oltre 50 aziende chiedendo loro di mostrare i progressi verso acquisti di materie prime non responsabili della deforestazione. Solo alcune di loro hanno risposto a tutte le informazioni richieste e come era prevedibile “nessuna azienda delle 50 interpellate è stata in grado di dimostrare un’azione significativa per porre fine alla deforestazione”.
Anzi. Nei cinque anni successivi all’impegno assunto a Cancun la produzione agro-industriale di molte multinazionali ed imprese ha causato la distruzione di 30 milioni di ettari di foresta prevalentemente in America Latina e nel Sud-Est asiatico. Benché dati precisi per il quinquennio attuale non siano ancora disponibili, Greenpeace fa notare che “la perdita di copertura forestale sta continuando a crescere, e questo suggerisce una perdita di almeno altri 50 milioni di ettari entro il 2020”. In particolare secondo il network internazionale Salva le Foreste “in Brasile l’area coltivata a soia è aumentata del 45% a partire dal 2010. Nello stesso tempo, la produzione di olio di palma indonesiano è cresciuta del 75%, mentre gli impatti ambientali della produzione di cacao in Costa d’Avorio sono cresciti dell’80%”. E il peggio deve ancora venire, avverte Greenpeace: “entro il 2050, infatti, è previsto un aumento del consumo di carne a livello globale del 76%, un aumento della produzione di soia del 45% e dell’olio di palma del 60%”.
Il problema sollevato dalla ong non è legato esclusivamente alla copertura forestale, perché a cascata l’agricoltura intensiva e l’allevamento sono tra i principali fattori di rilascio in atmosfera di gas serra. Secondo le stime di Greenpeace, se non ci sarà un radicale cambiamento, entro il 2050 le emissioni di gas clima alteranti cresceranno del 77% rispetto al 2009. “Il messaggio della comunità scientifica è chiaro – ha sottolineato Greenpeace – anche la commissione dell’Onu sul Clima, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), ha chiaramente avvertito che la riforma del sistema alimentare è indispensabile per garantire la protezione delle foreste e deve essere considerata un elemento essenziale nella lotta al cambiamento climatico”. Se le multinazionali sembrano per ora sorde al problema, la società civile, almeno in Unione europea, ha capito la gravità e l’urgenza del problema. Secondo un recente sondaggio commissionato dall’Environmental Investigation Agency, dal Fern, da Greenpeace e dal WWF a YouGov “la stragrande maggioranza degli europei vuole nuove leggi che assicurino la protezione delle foreste regolando le importazioni del cibo e dei prodotti a base di legno”.
Per le associazioni promotrici dell’indagine se, come emerge dai dati, “l’87% degli intervistati nei 25 paesi dell’Unione Europea ritiene necessaria una legge in grado di proteggere le foreste” e “il 91% degli intervistati è profondamente preoccupato per il destino delle foreste e ritiene che la deforestazione sia dannosa per l’umanità e per la fauna selvatica” è evidente che buona parte degli europei non vuole essere complice di questa tragedia. Il sondaggio, inoltre, ha evidenziato come la maggioranza dei cittadini dell’Unione europea ritenga che i propri governi nazionali e la stessa Unione stiano facendo troppo poco per contrastare la deforestazione globale. Questi risultati dovrebbero essere un monito per la Commissione europea che fino al novembre 2019 sarà impegnata a presentare un piano per intensificare l’azione dell’Unione contro la deforestazione. Non è ancora chiaro se tale piano includerà proposte di nuove leggi, ma è evidente che i cittadini europei e le associazioni ambientaliste vorrebbero più garanzie, due su tutte: “che i prodotti immessi sul mercato dell’Unione non siano causa di deforestazione o di violazioni dei diritti umani e che le banche europee smettano di promuovere progetti legati alla deforestazione globale”.
Se le leggi europee saranno indispensabili in questa battaglia per fermare la deforestazione entro il 2020, anche noi consumatori per evitare il “countdown to extincion” possiamo e dobbiamo fare la nostra parte cominciando a consumare meno carne bovina e meno prodotti agricoli di importazione come olio di palma, soia e cacao, tutti prodotti che spesso hanno un forte impatto sulle foreste del pianeta. Se così non sarà non stupiamoci più leggendo i dati della perdita di copertura forestale, come quelli elaborati dall’Università del Maryland e pubblicati lo scorso anno su Global Forest Watch: “Nel 2017 i soli tropici hanno perduto 15,8 milioni di ettari d copertura forestale, un’area grande quanto il Bangladesh: 40 campi da calcio al minuto per tutta la durata dell’anno”. Se disastri naturali come incendi e tempeste sono sempre più spesso tra le cause della deforestazione per via del cambiamento climatico, l’abbattimento delle foreste per fare spazio alle piantagioni e agli allevamenti resta la causa principale di questo dramma ambientale planetario. E noi consumatori siamo parte del problema!
Articolo di Alessandro Graziadei