Amnesty International India ha lanciato la campagna #LetKashmirSpeak per porre fine al prolungato blackout delle comunicazioni in Kashmir e mettere in luce gli alti costi umani dell’assalto alle libertà civili in corso da un mese.
“Il blackout va avanti ormai da un mese e sta avendo un grave impatto sulla vita quotidiana della popolazione del Kashmir, sulla salute fisica e mentale, sull’accesso a cure mediche e ad altri servizi primari e di emergenza”, ha dichiarato Aakar Patel, direttore di Amnesty International India.
Sebbene sia stato annunciato il ripristino delle linee telefoniche terrestri, l’obsolescenza di questo servizio faciliterà ben poco le comunicazioni per gli otto milioni di abitanti del Kashmir.
“Se in molti distretti del Jammu la situazione sta migliorando, la maggior parte del Kashmir è ancora sottoposta a un forte blackout delle comunicazioni. Privare un’intera popolazione del suo diritto alla libertà di espressione, di opinione e di movimento per un periodo di tempo indeterminato è come riportare indietro la regione di secoli. Da un mese a questa parte il governo indiano continua a dire che va tutto bene, ma non abbiamo sentito nessuna voce di conferma dal Kashmir. Questo è il segnale che non va tutto bene. Facciamo parlare il Kashmir”, ha aggiunto Patel.
Il 2 settembre, intervistato da “Politico Magazine” il ministro degli Esteri dell’India S. Jaishankar ha dichiarato: “Era impossibile interrompere le comunicazioni tra i terroristi senza che questo avesse un impatto in tutto il Kashmir. Come avrei potuto tagliare le comunicazioni tra i terroristi e i loro capi da un lato e tenere aperto Internet per la popolazione comune dall’altro lato?”
Amnesty International India riconosce che il governo possa avere legittimi problemi di sicurezza tali da giustificare, in determinate circostanze, limitazioni ragionevoli alla libertà di espressione. Ma il blackout delle comunicazioni in corso non è compatibile coi criteri di necessità, proporzionalità e legittimità stabiliti dall’articolo 19 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, di cui l’India è stato parte.
Quel blackout sta privando l’intera popolazione del Kashmir del diritto alla libertà di espressione e di opinione e dell’accesso alle informazioni: si tratta di una forma di punizione collettiva nei confronti di otto milioni di persone. La mancanza di trasparenza nei criteri usati per interrompere tutti i servizi di comunicazione e sui meccanismi disponibili per contestare la legittimità di tali provvedimenti pone l’India in chiara violazione dei suoi obblighi internazionali.
Nel frattempo, dalla regione trapelano drammatiche notizie su servizi di medicina d’emergenza non presidiati, arresti di massa, rastrellamenti notturni di bambini e giovani, torture e uso di proiettili di gomma e pallini da caccia contro i manifestanti. A ciò si aggiungono il massiccio spiegamento di forze armate e la sensazione generale d’incertezza dei componenti delle famiglie che non riescono ad avere contatti gli uni con gli altri.
Le azioni contro la libertà di stampa hanno ulteriormente inasprito il blackout delle comunicazioni. Il giornalista e scrittore Gowhar Geelani è stato arbitrariamente bloccato all’aeroporto di Nuova Delhi mentre stava per prendere un aereo diretto in Germania. Tre noti giornalisti sono stati costretti a lasciare i loro alloggi governativi.
“Considerata la cronica impunità per le violazioni dei diritti umani in Kashmir di cui le forze di sicurezza hanno beneficiato in passato e l’attuale mancanza di accesso alle informazioni provenienti dalla regione, la situazione richiede che il blackout delle comunicazioni sia tolto al più presto e che la popolazione del Kashmir possa riavere la parola ed essere ascoltata. Siamo di fronte a un blackout non solo dei mezzi di comunicazione ma anche a una repressione del cuore e delle menti dei kashmiri”, ha concluso Patel.
Il sito della campagna #LetKashmirSpeak: https://amnesty.org.in/take-action/put-humanity-first-lift-the-communications-lockdown-in-kashmir/