La Giornata Internazionale per la Pace, che si è celebrata, come ogni anno, lo scorso 21 Settembre, è uno dei momenti cruciali per riflettere sulla situazione e le prospettive dello scenario internazionale, per confermare e consolidare l’impegno, di tutti e di ciascuno, nella lotta contro la guerra e per la costruzione della pace, per condividere idee ed ipotesi di lavoro, lungo le quali incamminarci, in una prospettiva di futuro. Sono, del resto, queste le motivazioni di fondo che stanno alla base della risoluzione 36/67 della Assemblea Generale delle Nazioni Unite (30 Novembre 1981), che, istituendo la Giornata per la Pace, ha chiesto a tutti e tutte, popoli e Stati, «di rafforzare gli ideali di pace e di alleviare le tensioni e le cause dei conflitti», intendendo, allo stesso tempo, l’impegno contro la guerra e per la pace, non solo come una vocazione “morale”, ma specificamente come un impegno “fattivo”, al quale tutti e tutte siamo chiamati.
L’occasione è pertanto preziosa per riflettere sullo stato del pianeta e per sollecitare ad un rinnovato impegno nella direzione del rilancio del ruolo delle Nazioni Unite, della comunità internazionale complessivamente intesa, nella prevenzione della guerra e nella costruzione della pace, per dirla con Johan Galtung, «a partire dalle cause», rimuovendo e contrastando, attivamente, le diseguaglianze e le ingiustizie, l’oppressione e lo sfruttamento, e, come ha recentemente richiamato il Segretario Generale, Antonio Guterres, in apertura del summit delle Nazioni Unite contro il surriscaldamento climatico, lo stravolgimento dell’equilibrio eco-sistemico, che, unito all’iper-sfruttamento delle risorse energetiche, costituisce uno dei fattori oggi più allarmanti di sperequazione e di tensione, di guerra e di conflitti.
Anche per questo è molto importante recuperare e rilanciare, nel contesto di un nuovo multipolarismo e di una riforma del sistema stesso delle Nazioni Unite, che vada verso un maggiore bilanciamento dei rapporti di forza, una più accentuata democraticità dell’organizzazione, una più coinvolgente partecipazione di popoli e comunità, il ruolo delle Nazioni Unite, della comunità internazionale complessivamente intesa, nella prevenzione dei conflitti armati e nella costruzione della «pace positiva». L’Agenda per la Pace, «An Agenda for Peace. Preventive diplomacy, peace-making and peace-keeping», il Rapporto del Segretario Generale delle Nazioni Unite del 1992, esplicitamente richiede che ufficiali di polizia civile, osservatori civili dei diritti umani, specialisti civili per i profughi, i rifugiati e l’aiuto umanitario abbiano lo stesso ruolo dei militari, siano considerati altrettanto se non maggiormente decisivi nelle misure di protezione dei diritti umani e di costruzione della pace, siano attori cruciali per il peace-keeping ed il peace-building.
Come infatti ricordano i panel dedicati delle Nazioni Unite, «il peace-keeping delle Nazioni Unite sostiene i Paesi sconvolti dai conflitti nel creare condizioni per una pace duratura»; tale peace-keeping ha alcuni specifici punti di forza, quali «legittimità, condivisione delle responsabilità e la capacità di dislocare effettivi provenienti da tutto il mondo, integrati con operatori di pace (peacekeeper civili) nel contesto di mandati multi-dimensionali». Tra questi: la prevenzione dei conflitti, vale a dire le «misure diplomatiche volte a prevenire che le tensioni degenerino in conflitti violenti», quali l’allerta tempestiva, la documentazione, e l’analisi dei dati-sentinella, potenziali spie di conflitto; quindi, il peace-making, vale a dire le «misure tese a portare le parti in conflitto a giungere alla negoziazione di un accordo», anche attraverso iniziative diplomatiche, ufficiali o popolari; infine, il peace-building, vale a dire le «misure tese a rafforzare le capacità locali di gestione dei conflitti e di prevenzione delle escalation» a livello sociale ed istituzionale.
In questa strategia, che si dipana, a partire dagli anni Novanta, sino ai giorni nostri, numerosi tasselli hanno confermato il ruolo cruciale degli operatori civili nei percorsi di prevenzione della violenza e trasformazione dei conflitti. Nel 1995, la risoluzione 50/49 dell’Assemblea Generale sulla partecipazione dei «Caschi Bianchi» nell’aiuto umanitario, nella cooperazione per lo sviluppo e nella ricostruzione «incoraggia azioni … tese a mettere a disposizione del sistema delle Nazioni Unite corpi volontari nazionali come Caschi Bianchi, al fine di fornire risorse umane specializzate per l’aiuto umanitario in casi di emergenza e di riabilitazione». Nel 1999, la raccomandazione 47/99 del Parlamento Europeo al Consiglio dell’UE propone l’istituzione di un Corpo Civile di Pace Europeo in forma di un contingente minimo, flessibile e facilmente dispiegabile, con compiti quali (art. 2): «arbitrato, mediazione e costruzione della fiducia tra le parti; aiuto umanitario, reintegrazione (disarmo e smobilitazione di ex-combattenti), riabilitazione, ricostruzione e monitoraggio; osservazione, monitoraggio e miglioramento della situazione dei diritti umani».
È più che mai il caso, all’indomani della Giornata della Pace 2019, di rilanciare dunque questo impegno: a maggior ragione dopo l’approvazione della risoluzione 2250 (2015) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite («Giovani e Pace») che esplicitamente afferma «l’importante ruolo dei giovani nella prevenzione e nella risoluzione dei conflitti e come attori cruciali per la sostenibilità e il successo degli sforzi per il peace-keeping ed il peace-building»: una nuova leva per rafforzare, oggi, l’impegno per la pace.