Non manco mai di leggere gli articoli di Damiano Aliprandi, che scrive su “Il Dubbio”, uno che in carcere non c’è mai stato, ma che descrive le realtà carcerarie come se ci fosse stato tutta la vita. I casi sono due: o c’è stato in un’altra vita o è solo un bravissimo giornalista, probabilmente tutte e due le cose.
Ecco i titoli dei suoi due ultimi articoli: “Petto di pollo scaduti da tre mesi in vendita ai detenuti di Bologna” (…) “Costretti al sopravvitto che costa anche il doppio. Colazione, pranzo e cena per ciascun recluso costano 3 euro e 90”. Sì, lo so, non bisogna mai generalizzare, ma penso che se un giorno i giudici entrassero in carcere per fare rispettare la Costituzione e la legge buona parte di chi ci lavora, a partire dai funzionari ministeriali, sarebbero arrestati e processati. Questo però è difficile che possa accadere, perché la società chiede giustizia, ma in realtà vuole vendetta e nessuno si lamenta se il carcere è il posto più illegale di qualsiasi altro luogo.
Non è una novità che il cibo del carcere faccia schifo, non per niente in gergo carcerario viene chiamato “sbobba”. Solo i più poveri fra i poveri lo prendono, non per mangiarlo ma solo per nutrirsi. È poco, cucinato male e quando dalla cucina arriva in sezione, spesso senza carrelli termici, sembra un pastone per galline. Per questo molti detenuti si cucinano da soli, anche perché chi ha scontato molti anni di carcere è ammalato allo stomaco. Ovviamente, con la solita scusa di “motivi di sicurezza” i mezzi e gli ingredienti per farsi da mangiare da soli sono pochi: qualche pentola, fornello da campeggio, buona volontà e passione. Io non cucinavo molto bene, quando non mi mandavano il “piatto” i miei compagni (fra di noi si usa scambiarci quello che cuciniamo) mi facevo spesso un piatto di spaghetti con il pomodoro fresco, olio crudo, aglio e basilico ed una spruzzata di pecorino. Mi ricordo che la cosa più brutta era mangiare da soli come cani, perché dei miei 28 anni di carcere la maggior parte li ho passati in regimi di carcere duro, dove non potevo neppure prepararmi un pasto caldo.
Ecco cosa scrivevo alla magistratura di sorveglianza quando ero detenuto in Sardegna:
“È un periodo che il cibo che passano è scarso e cucinato male più del solito, specialmente per cena passano un pentolone con una brodaglia che neppure i maiali mangerebbero… si vede che ultimamente stanno rubando di più. Non ci è stata consegnata la posta perché non è stata ritirata, i posti di lavoro non sono stati ancora assegnati. Un nostro compagno ha dovuto buttare il pacco contenente cibo perché consegnato in ritardo; domandine che spariscono o che vengono respinte senza ragionevole motivazione. I detenuti rifiutano sistematicamente il cibo ordinario perché c’è un solo carrello che deve fare tre piani (portato a mano da un piano all’altro) e man mano che arriva nelle ultime cella il cibo diventa immangiabile, una specie di pastone per galline. I lavoranti non sono forniti di guanti, berretti grembiuli e degli appositi carrelli termici. Lamentiamo la mancanza di spazi comuni dove svolgere qualsiasi attività, passiamo circa 20 ore al giorno su 24 in cella. La corrispondenza è l’unica forma davvero libera di cura degli affetti, le lettere sono un piccolissimo angolo di libertà che a volte è la sola ricchezza di chi sta in galera: una specie di cibo per l’anima. La posta in carcere rappresenta una prova tangibile dell’altrui affetto, quasi un mezzo per non sentirsi dimenticati o abbandonati, infatti uno dei pochi momenti “belli” della nostra giornata è rappresentato dalla distribuzione della posta, ed è crudele che a volte la posta ci venga negata per problemi burocratici interni.”