“Un decennio perduto. Tra il 2020 e il 2030 i policy-maker mondiali sottovalutano clamorosamente i rischi del climate change, perdendo l’ultima occasione per mobilitare tutte le risorse tecnologiche ed economiche disponibili verso un unico obiettivo: costruire un’economia a zero emissioni cercando di abbattere i livelli di CO2, per avere una possibilità realistica di mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei due gradi”.
Questo è l’incipit di un articolo del Sole 24 ore del 27 giugno, che riassume uno studio scientifico del National Center for Climate Restoration australiano dal titolo “Existential climate-related security risk”. L’articolo sostiene che continuando con l’attuale trend, entro poche decine di anni verranno meno le condizioni della sopravvivenza sulla Terra della specie umana, o per lo meno del suo attuale livello di “civiltà”.
A una persona normale che legge quell’articolo la prima cosa che viene in mente è: come mai le altre 40 pagine dello stesso giornale sono dedicate solo al business as usual e neanche una alle misure per prevenire la catastrofe? Ma lo stesso accade su tutti gli altri giornali del paese: l’allarme c’è, ed è mortale, ma “chissenefrega”. La sensazione, anzi, la certezza che se ne ricava è che la nostra classe dirigente sia impazzita, o abbia perso la capacità di governare i processi di cui pure riconosce l’esistenza. In fin dei conti il Sole 24 ore è l’organo della Confindustria, cioè della classe imprenditoriale; Repubblica e il Corriere, che hanno linee editoriali analoghe, sono house organ del partito del Pil, che ha in mente un unico obiettivo, la “crescita”; degli altri giornali, o canali TV, meglio non parlare.
Solo queste incoscienza e inconsistenza assolute (peraltro condivise, anche se in forme meno acute, da gran parte delle “classi dirigenti” dell’Europa e del mondo) possono dar ragione di processi per altro verso inspiegabili: per esempio, come mai tutta l’Italia che “conta” – partiti, governi, sindacati, industriali, media, economisti – si sia coalizzata e accanita, senza nemmeno rendersi conto di quanto sia ridicola la loro furia, intorno a un buco nelle Alpi di 57 chilometri, pagato quasi interamente dall’Italia (i contributi della Commissione europea non sono un regalo, ma una parte di spettanza italiana di fondi che il nostro paese versa all’Unione), anche se corre per lo più in territorio francese, se allo scadere della concessione apparterrà alla Francia che ne riscuoterà il pedaggio e che nel frattempo incasserà anche l’iva pagata dall’Italia (la società che lo realizza è di diritto francese) su lavori eseguiti in gran parte da ditte estere. Dentro quel buco non correrà mai quel treno ad alta stupidità (TAS) Torino-Lione, perché, come a tutti i progetti senza capo né coda, mancherà capo e coda: il collegamento con Torino (che non è in bilancio) e con Lione, che la Francia “prenderà in considerazione” solo dopo il 2038, quando il caos climatico sarà ormai irreversibile e di merci tra l’Italia e la Francia, e viceversa, forse non ne viaggeranno più. Un particolare che anche l’analisi costi-benefici del prof. Ponti non prende in considerazione.
Per questo la lotta contro il TAV deve continuare: è il paradigma della lotta contro tutto ciò che sta all’origine dei cambiamenti climatici. Sono così, infatti, tutti o quasi i grandi progetti – Olimpiadi, TAP, nuove autostrade, trivelle – a cui viene affidata la crescita, in un periodo in cui dovrebbe essere chiaro che si deve correre ai ripari.
A ragionare in modo sensato sembra essere solo una parte (per ora) delle nuove generazioni, quella raccolta intorno a Greta Thumberg e al movimento Fridays for Future, che dice una cosa molto semplice: “Ci state ammazzando! Nel mondo che cercate di far girare sempre allo stesso modo per noi non c’è più posto. Se son vere le cose che affermano gli scienziati del clima – e sono vere, e lo vediamo ogni giorno – siete tutti degli emeriti criminali”.
Certo, accanto a chi continua a sbeffeggiare Greta e i suoi adepti è in atto anche una corsa di molti “Grandi della Terra” a darle ragione, a invitarla qui e là, a proclamare l’emergenza climatica e ambientale. Purché questo non metta in questione i progetti di cui vive il sistema e il trantran della vita di tutti. Così, è persino più razionale il comportamento di chi nega l’evidenza del cambiamento climatico, perché nulla cambi, che quello di chi la riconosce, purché non cambi nulla.
Ora i giovani, e non solo loro, sono scesi in campo e si faranno risentire in tutto il mondo tra il 20 e il 27 settembre con un nuovo grande climate strike, in uno scontro frontale – sono in gioco le vite di miliardi di esseri umani – con lo stato di cose presenti e chi si adopera per perpetuarlo. Prendiamo atto che questa è la lotta fondamentale che terrà tutti impegnati nei prossimi anni: da una parte o dall’altra, perché l’area dell’indifferenza è destinata a dissolversi. Tutte le altre lotte, sacrosante e legittime, per il salario, l’occupazione, la casa, il welfare, la scuola, il diritto di migrare e i loro protagonisti attuali e futuri, dovranno collocarsi sotto questo ombrello. E non per tutti sarà facile, perché le contraddizioni emergeranno con forza e gli accostamenti meccanici tra una causa e l’altra – come si fa spesso nel redigere frettolosi programmi politici o elettorali – non funzionano. Nella ricerca di una mediazione tra la lotta per il clima e quella per la giustizia sociale il rapporto con il territorio, con le nostre radici nella Terra, avrà un ruolo fondamentale, come ci insegnano l’enciclica Laudato sì e il prossimo sinodo sull’Amazzonia.