A prima vista è la candidata perfetta. L’attuale ministra della difesa tedesca Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea “in pectore”, soddisfa molti dei requisiti necessari per occupare lo scranno più alto della politica europea. Vicina ad Angela Merkel, per la quale è stata ministra fin dal 2005, occupandosi prima di famiglia, anziani, donne e gioventù, poi di lavoro e affari sociali (2009-2013) e, dal 2013, di difesa, la sessantenne von der Leyen conosce bene Bruxelles, capitale delle istituzioni europee, dov’è nata, e parla correntemente tutte e tre le lingue di lavoro dell’Unione, inglese, tedesco e francese.
La sua nomina rispetta la regola non scritta che vuole che i posti del potere in Europa siano spartiti con il bilancino tra le famiglie politiche più importanti: con lei, infatti, ai popolari va la Commissione europea, ai liberali la presidenza del Consiglio europeo (con il belga Charles Michel) e ai socialdemocratici la presidenza del Parlamento europeo (con l’italiano David Maria Sassoli) e l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza (quello che ha l’ambizione di essere il ministro degli esteri dell’Ue, posto che nei prossimi cinque anni sarà occupato dallo spagnolo Josep Borrell).
Ma se la scelta di von der Leyen trova effettivamente la quadra in una logica di mera spartizione delle poltrone, lo stesso purtroppo non si può dire dal punto di vista dei contenuti. Se ne è subito accorto il presidente del Consiglio europeo uscente, Donald Tusk, che parlando davanti alla plenaria del Parlamento europeo ha fatto appello a tutti i partner per “coinvolgere i Verdi nel processo decisionale Ue”. Tradotto: almeno il posto di Commissario europeo all’ambiente dovrebbe andare a un esponente ecologista.
Qui non si tratta solo di allargare la maggioranza al quarto gruppo politico dell’Eurocamera. Come ha giustamente ricordato Tusk, “in molti Paesi i Verdi simbolizzano la speranza e la libertà”. Soprattutto in quella Germania da cui viene Ursula von der Leyen, dove gli ecologisti hanno superato i socialdemocratici della Spd, puntato a sorpassare anche i cristiano democratici e affermarsi come primo partito del Paese. Più in generale, alle ultime elezioni europee il voto “verde”, complice anche il movimento dei Fridays for future, si è fatto sentire in molte parti del continente, soprattutto tra i più giovani, riaccendendo la partecipazione e l’entusiasmo per il progetto europeo.
Per l’Unione questa è un’occasione da non mancare: se, da un lato, l’ambiente ha bisogno dell’Unione europea, dall’altro l’Unione europea ha un disperato bisogno dell’ambiente. “La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile”, affermava l’indimenticato Alexander Langer. Quel momento sembra essere finalmente arrivato e l’Unione europea può ritrovare un senso, ritrovare una missione pari per importanza a quella con cui è nata – garantire pace e benessere – facendosi con ancora più forza e determinazione alfiere di una crescita sostenibile e inclusiva.
Da questo punto di vista, la nomina di Ursula von der Leyen non può che apparire come una delusione. Non si sa quale sia la sua posizione sulle principali tematiche legate all’ambiente, nel migliore dei casi si può solo presumere che, visto il suo passato da ministro della gioventù, provi empatia verso le questioni che interessano le nuove generazioni. Troppo poco, soprattutto dopo che settimane fa il Consiglio europeo, che riunisce i capi di stato e di governo dei Paesi membri, ha fatto un passo indietrosulla promessa di un’Europa a zero emissioni entro il 2050, a causa dell’opposizione di alcuni paesi dell’Est, tra cui Polonia e Ungheria.
Come l’Europa, anche von der Leyen si trova oggi a un bivio: per diventare presidente della Commissione, il prossimo 16 luglio dovrà confrontarsi con il voto in Parlamento europeo, dove ha bisogno della maggioranza assoluta, cioè almeno 376 voti su 751 parlamentari. Sicuro il voto dei popolari (182 seggi) e quello dei liberali (108 seggi), molto meno quello dei Verdi (74 seggi) e dei socialdemocratici (154 seggi), con i 16 deputati tedeschi della Spdche hanno già promesso di votare contro, nonostante questo potrebbe scatenare una crisi di governo a Berlino, dove la Cdu governa insieme alla Spd.
Visto l’accordo che ha portato alla distribuzione delle alte cariche europee, la maggioranza a sostegno di von de Leyen dovrebbe essere costituita da popolari, liberali e socialdemocratici, con alcuni di questi ultimi che, nel segreto dell’urna, potrebbero far mancare i voti necessari per raggiungere la maggioranza assoluta. In questi giorni per von der Leyen si tratta quindi di decidere se tentare di persuadere i socialdemocratici delusi dalla sua nomina e allargare la maggioranza ai Verdi o, piuttosto, guadare a destra, per esempio ai Conservatori e riformisti (62 seggi), tra i quali siedono anche gli esponenti di Diritto e Giustizia (PiS), partito attualmente al governo in Polonia.
La scelta è tra un’Europa più verde e più giusta e lo status quo, ovvero l’Europa delle nazioni. Non ci sono vie di mezzo. Se avrà luogo, la conversione ecologica potrà soltanto essere rivoluzionaria. Alcuni ingredienti della ricetta “verde”: una tassa sulle emissioni di CO2, la fine dei sussidi ai combustibili fossili, obiettivo consumo di energie rinnovabili al 100 per cento, investimenti nelle ferrovie per il trasporto di merci e persone, l’introduzione di una tassa europea sui voli, puntare su un’agricoltura più sostenibile (come quella biologica), lottare contro il disboscamento e l’inquinamento dei mari, incrementare il riciclo dei rifiuti, accordi commerciali equosolidali, una riforma fiscale ecologica che tassi di più inquinamento e uso delle risorse e meno il lavoro.
Come spesso accade, quindi, la prospettiva migliore è anche quella meno a portata di mano. Ma in gioco non c’è solo il futuro politico di Ursula von der Leyen o l’accordo tra popolari, socialdemocratici e liberali. L’Europa ha l’occasione di ritrovare una missione capace di dare senso al suo progetto e contribuire così a rendere non solo il nostro continente ma anche il mondo intero un posto più desiderabile per tutti. Riprendendo il famoso “it’s the economy, stupid!”, slogan che nel 1992 portò Bill Clinton alla presidenza degli Stati Uniti, non resta che da dire “It’s the environment, stupid!”.
Articolo di Matteo Angeli