Inizia così una delle tante lettere scritte dai detenuti del carcere Mammagialla al Garante per i diritti dei detenuti del Lazio. Uno scenario inquietante, quello descritto dai detenuti. Alcuni hanno rotto il silenzio e hanno messo tutto nero su bianco. Lettere che sono riuscite a oltrepassare le sbarre grazie alle collaboratrici del Garante per i diritti dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia.
Molte ormai le denunce su presunti casi di abusi e violenze da parte di gruppi di agenti di polizia penitenziaria, eppure in Italia sul fronte violenza e tortura nelle carceri ancora nulla si muove.
E’ vero che la magistratura ha aperto diversi fascicoli d’indagine, ma è anche vero che quasi sempre s’indaga contro ignoti, e che un muro di omertà copre coloro che compiono atti efferati protetti dietro la forza di una divisa.
Per rendersi conto del fenomeno bisogna leggere anche soltanto alcuni frammenti di queste lettere raccolte dal garante per i diritti della regione Lazio, qua sotto ne riportiamo alcuni stralci.
Sono grida di paura, sono strazianti richieste di aiuto le frasi scritte su quei fogli dove si raccontano tra terrore e disperazione, episodi di violenza vissuta sulla propria pelle tra pestaggi e minacce di morte da parte di uomini in divisa.
Queste le lettere provenienti dal carcere di Viterbo:
• “Sono stato malmenato dalle guardie, picchiato talmente forte da farmi perdere la vista all’occhio destro. Avevo soltanto chiesto di andare a scuola per 3 o 4 volte. Mi hanno portato per le scale centrali e hanno cominciato a picchiarmi: calci, schiaffi e pugni. Poi ne sono arrivati altri con il viso coperto. Vedevo solo i loro occhi. Erano in 8/9 mentre mi menavano dicevano: “Noi lavoriamo per lo stato italiano, negro di merda! Perché non ritorni al Paese tuo?” E io pregavo e continuavo a piangere. Se sei uno straniero sei finito, o muori o esci tutto rotto da qui, a Viterbo. Vi prego, vi scongiuro, aiutatemi. Ho paura di morire. La mia famiglia non sa nulla.
Usano parole offensive contro me e la mia famiglia, e io sto zitto per forza perché se dico qualcosa mi menano come fanno sempre”.
• “L’ispettore mi ha minacciato: “Tu qua muori!”. E infatti alle ore 7.40 sono entrati 11 agenti di polizia penitenziaria armati di bastoni per la fare la perquisizione e sono stato picchiato, torturato e minacciato di morte”.
• “Qui hanno quasi 3 squadrette solo per menare i detenuti. Io ne ho prese tante da loro. Da quando sono venuto qui, sono morte delle persone. Non so il motivo però credetemi, sto dicendo la verità. Aiutatemi, mandatemi via da questo carcere”.
Ho paura che mi fanno morire. Vogliono portarmi in isolamento ma non sono stato punito, “nessuna sanzione” mi hanno risposto. Moralmente e fisicamente sto a pezzi. Per favore mi serve il vostro aiuto, mandatemi via da questo carcere il più presto possibile”.
• “Senza motivo ritorno in isolamento. La guardia mi dice: “Hai qualche problema?” Io rispondo: “Che vorresti fa?”. “Se ti metto le mani addosso, sei finito, hai il colore della merda, buttati a dormire”, risponde. Io gli dico che voglio parlare con la sorveglianza. La guardia mi risponde: “Ti faccio fare una brutta fine, merda!”
• “I dottori e gli infermieri sapevano che avevo contusioni perché gli agenti di polizia penitenziaria mi ha ammazzato di botte tra pizze e schiaffi.
Mi hanno sottoposto a continue vessazioni, fisiche e mentali, che ho dovuto subire dagli agenti. Mi hanno provocato fino a spingermi in errore per poi aggredirmi con una ferocia inaudita, tanto da riportare traumi al corpo e tumefazioni al viso”.
• “Sogno ogni sera Hassan Sharaf (un giovane detenuto egiziano di 21 anni che ha tentato il suicidio in una cella di isolamento a 40 giorni dalla libertà, morto il 30 luglio 2018 all’ospedale Belcolle di Viterbo dopo una settimana di agonia) e mi sveglio nel panico. Ricordo il mio bambino, ha 13 anni e io trattavo la buon anima di Hassan come mio figlio. Adesso anche un altro detenuto sta in paranoia perché l’assistente ha detto: “Ci pensiamo anche a te”. Adesso ho capito che loro vogliono ammazzarmi”.
Questa invece la testimonianza di un detenuto del carcere Magli di Taranto:
• “E delle celle lisce non vogliamo parlare? E delle celle di punizione dove veniamo detenuti senza materassi e cuscini e dove non possiamo avere penne e foglio per scrivere una lettera? E del reparto infermeria dove si mettono anche detenuti con problemi psichici nudi obbligandoli ad avere le finestre aperte? questo invece scriveva, in una lettera indirizzata all’associazione Antigone, Antonio un detenuto che ancora oggi si trova recluso all’interno della casa circondariale Carmelo Magli di Taranto.
Queste solo alcune delle testimonianze contenute nel XIV rapporto sulle condizioni detenzione redatto da Antigone, frutto della visita di 86 carceri:
“In dieci istituti, tra quelli che abbiamo visitato, c’erano celle in cui i detenuti non avevano a disposizione neppure 3mq calpestabili. Nella metà dei penitenziari che abbiamo visto c’erano celle senza docce, o, peggio ancora, in quattro istituti abbiamo riscontrato la presenza del wc in un’ambiente non separato dal resto della cella”.
La situazione delle carceri italiane è al collasso. Ma come detto sopra purtroppo non è solo il sovraffollamento dei penitenziari la maggiore delle preoccupazioni dell’associazione Antigone che da 20 anni è autorizzata dal ministero della Giustizia a visitare i 190 istituti di pena italiani, ed entrare nelle carceri con prerogative simili a quelle dei parlamentari.
Il numero di morti per suicidio ormai sono uno alla settimana. I tentativi di suicidio invece sono oltre un migliaio l’anno, 127 il numero dei reclusi deceduti nel 2018 in seguito a “morte naturale”. Le chiamano così, “morti naturali”, anche se di naturale non hanno niente, ché nel migliore dei casi nascondono un disagio profondo legato alle condizioni di detenzione e molte altre invece le volte che dietro celano ben peggio.
E poi migliaia gli episodi di autolesionismo a cui si può assistere tutti i giorni. Persone che tentano di suicidarsi ingoiando oggetti più disparati come batterie, taglia unghie, accendini. Uno stato quelle delle carceri italiane che sempre più spesso ancor più che la pena, garantisce morte, violenze senza fine, torture, assenza totale d’ogni benchè minimo diritto.