Dopo aver letto, grazie ad alcuni recenti studi condotti dai ricercatori dell’Università statale di New York e di quella del Minnesota, che anche il sale marino è contaminato da microplastiche e che gli esperimenti di un team di ricercatori britannici coordinati dal Center for marine biodiversity & biotechnology dell’Heriot-Watt University hanno accertato che una persona inghiotte ogni anno fino a 68.415 minuscole e volatili particelle di plastica semplicemente sedendosi a tavola, appare chiaro che l’inquinamento da plastiche e microplastiche è oggi una delle principali sfide mondiali per la tutela dell’ambiente e della nostra salute. Forse per questo non mi ha sorpreso leggere che le materie plastiche sono sempre più presenti nei sistemi fluviali e che non solo influenzano la salute della vita acquatica e la qualità dell’acqua, ma diventano una delle principali fonti di rifiuti degli ambienti marini. Una realtà certificata in questi mesi dal progetto dell’Università di Birmingham 100 Plastic Rivers Project che grazie alla collaborazione di scienziati da tutto il mondo ha monitorato le materie plastiche che vengono trasportate nei fiumi, accumulandosi nei sedimenti e lasciando così la loro duratura eredità inquinante.
I campionamenti di acqua e sedimenti dei fiumi sono stati effettuati dai ricercatori in oltre 60 località principalmente del Regno Unito e della Francia per cercare sia le microplastiche primarie, come le microsfere dei cosmetici, sia le microplastiche secondarie, prodotte da oggetti di plastica più grandi che si sono degradati o dalle fibre artificiali dell’abbigliamento che si è consumato. “Valutando i sistemi di acqua dolce e oceanici come interconnessi – hanno spiegato i ricercatori di 100 Plastic Rivers – l’obiettivo del progetto è capire come gestire meglio la crisi globale della plastica prima che arrivi al mare”. Una scommessa più che attuale anche perché, secondo gli eco studiosi, “La nostra capacità di valutare i rischi tossicologici globali dagli impatti delle microplastiche sulla salute pubblica e ambientale è limitata dalla mancanza di conoscenza del loro trasporto, deposizione e assorbimento attraverso gli ecosistemi acquatici fluviali”. Per, Stephan Krause della School of geography, Earth and rnvironmental sciences dell’università di Birmingham che ha guidato l’indagine, “Anche se smettessimo di usare la plastica in questo momento, ci sarebbero ancora decenni, se non secoli di plastica che verrebbe dilavata nei fiumi e nei nostri mari”. Per questo è necessario diventare sempre più consapevoli dei problemi che questa forma di inquinamento sta causando nei nostri oceani e capire da dove provengono e come si stanno accumulando nei nostri sistemi fluviali queste plastiche.
Consapevoli del fatto che “solo ora stiamo iniziando a prendere in considerazione come risolvere il problema e a valutare la portata del rischio che stiamo affrontando” il progetto 100 Plastic Rivers Project, finanziato da Leverhulme Trust, EU Horizon 2020 Framework, Royal Society e Clean Seas Odyssey, ha accertato che “Il quadro iniziale suggerisce che anche nei Paesi vincolati dalle rigide politiche contro l’inquinamento idrico dell’Ue, esistono numerose fonti di plastica che contribuiscono alle alte concentrazioni di microplastiche nei sistemi fluviali”. Secondo i ricercatori ora è indispensabile uscire dai confini inglesi e francesi per fornire una panoramica della distribuzione globale di microplastiche negli ecosistemi di acqua dolce, utilizzando protocolli di campionamento standardizzati e metodi di estrazione di recente sviluppo utili a realizzare un “kit di strumenti” per valutare l’inquinamento da microplastica nei sistemi fluviali di tutto il mondo, a cominciare da quello italiano. Le immagini dei “fiumi di plastica” scattate ad inizio aprile da Greenpeace nel letto del Po in secca, infatti, sembrano evidenziare le condizioni particolarmente critiche del nostro principale sistema idrico. “Le immagini mostrano uno scenario tipico dei paesi del Sud-est asiatico, in cui i fiumi sono delle vere e proprie discariche a cielo aperto – ha dichiarato Giuseppe Ungherese di Greenpeace Italia – La scarsità idrica che ha caratterizzato per diverse settimane i corsi d’acqua del nord Italia ha fatto emergere, in tutta la sua gravità, il problema dell’inquinamento da plastica e di come i corsi d’acqua siano ormai invasi da contenitori e imballaggi usa e getta”.
In un contesto globale in cui gli effetti dei cambiamenti climatici sono sotto gli occhi di tutti è necessario gestire in modo sempre più corretto e attento le risorse idriche, proteggendole adeguatamente anche dall’inquinamento pervasivo della plastica. Un problema di non facile soluzione visto che come ha ricordato in più occasioni Greenpeace “ogni minuto, ventiquattro ore al giorno, l’equivalente di un camion pieno di plastica finisce nei mari del Pianeta” e di tutta la plastica prodotta ogni anno, il 40% viene impiegato per la produzione di contenitori e imballaggi monouso, che com’è evidente dallo stato dei fiumi mondiali troppe volte non trovano la via del recupero all’interno di un’economia ancora tutt’altro che circolare. Anche se il problema è lontano dall’essere risolto qualcosa si sta muovendo non solo nel mondo della ricerca, ma anche a livello di sensibilità politica. Lo scorso 4 aprile per esempio è stata approvata dal Consiglio dei Ministri la legge Salvamare, che interviene sulla plastica già presente in mare dando gli strumenti normativi ai pescatori per portare a terra quella che rimane impigliata nelle loro reti, mentre l’Europarlamento ha approvato il 27 marzo marzo una nuova legge che vieta entro il 2021 l’impiego di molti articoli in plastica monouso.
Adesso per ridurre ulteriormente la plastica occorre fare un altro importante passo e introdurre regole più stringenti sul packaging e magari un incentivo economico all’impiego di plastica riciclata, una misura che già è prevista dal comma 73 della legge di Bilancio 2019, ma che senza gli opportuni decreti attuativi per applicarla rischia di fare un buco “di plastica” nell’acqua.