Ormai diciotto anni separano dal vertice di Genova tra le otto potenze politiche, economiche e militari del Pianeta. Forse pochi ricordano l’ordine dei lavori di un meeting internazionale andato in scena tra il 19 e il 22 luglio del 2001, con un contenuto decisionale modesto, se non quello di rinsaldare le scelte macroeconomiche già diffusamente sperimentate sin dall’inizio degli anni Novanta. Molto di più, nella memoria collettiva e nei tribunali, è rimasto e resta dei cortei svoltisi in città, della forza d’urto di un servizio di sicurezza resosi responsabile di violazioni dei diritti umani, secondo sentenze di giurisdizioni interne e internazionali ormai passate in giudicato. E molto si ricorda delle immagini: scenari quasi libanesi o egiziani di fumogeni, cariche, pestaggi, fermi illegittimi e guerriglia urbana.
La memoria non inganna se si colloca il 2001 nella sua cornice storica. Le forze socialdemocratiche e democratiche europee, asiatiche e, in parte, latino-americane che avevano governato per buona parte del decennio precedente scontavano ormai una sconfitta storica, data dall’incapacità di quel riformismo temperato di farsi concreta azione di risposta alle domande di giustizia sociale. Andava in scena un mutamento contestuale di molte maggioranze nazionali, con parole d’ordine più nette ma non per questo più rassicuranti e fortunate negli effetti.
Da lì a meno di due mesi, gli attacchi terroristici dell’11 settembre avrebbero riscritto definitivamente una nuova psicologia collettiva di come l’Occidente guardi ad Est e di come l’Oriente guardi ad Ovest. Gli osservatori meno distratti, nel filone degli studi dell’analisi economica del diritto, notavano i primi segni di una forte ascesa geopolitica e produttiva di Brasile, Russia, India, Cina, Iran e Sudafrica. Giustamente, però, una parte degli studi sul post-colonialismo ammoniva: quella poderosa risalita non addita un nuovo modello di sviluppo, anzi essa mette paura all’alleanza atlantica perché si svolge ben all’interno, risolutamente all’interno, delle regole della competizione capitalistica.
Tornando alla realtà italiana, il movimento noglobal sembrava incarnare l’ultima e residua forma di opposizione sociale in un contesto di legislatura dove la maggioranza imperniata su Forza Italia e la leadership di Silvio Berlusconi aveva ottenuto una performance con pochi precedenti nella storia della Repubblica. I cinque anni di centrosinistra erano stati all’opposto a dir poco impopolari. Sul piano costituzionale, si era cambiato il Titolo V della Carta, con una modifica che ampliava senza troppo criterio le competenze dell’ente regione, dando il via a una stagione elefantiaca di spesa pubblica decentrata priva di ritorni sul piano delle prestazioni sociali. Era stato inoltre fortemente irrobustito l’articolo 111 della Costituzione, nel quadro di un ordinamento che asseriva di voler implementare le garanzie penalistiche e, in un altro ramo della scienza giuspubblica, voleva pure migliorare e favorire la partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo. Proprio Genova dimostrerà oltre ogni ragionevole dubbio il duplice fallimento di questi intendimenti teorici.
Il blocco sociale che costituiva l’ossatura dei manifestanti non aveva diretti canali di riconoscimento politico: il principale partito del centrosinistra era incerto tra sporadiche partecipazioni individuali e più o meno dichiarate accuse di estremismo e isolazionismo. Le modeste forze alla sua sinistra intuivano certo la possibile visibilità che ne poteva derivare, ma i cortei non ebbero specifico aiuto dai partiti costituiti. Era una sorta di vizio frequente nell’arco progressista di quegli anni: appoggiare le spore del dissenso solo alla loro piena evidenziazione sociale, e non anche nella loro fase di formazione (sarà così otto anni dopo nella contestazione di massa dei lavoratori al Protocollo sul Welfare siglato da un governo di centrosinistra, con ben quattro ministri e un presidente della Camera provenienti da organizzazioni e partiti almeno apparentemente schieratisi a sinistra del PD e delle sue “dimagranti” politiche sociali).
Partecipò anche una modesta ma non irrilevante componente di sinistra di base cristiano-sociale, anticipando quel che tutt’oggi avviene nell’opinione pubblica cattolica. Si fronteggiano sui temi politici e civili, ieri sulla globalizzazione e oggi sulle migrazioni nel Magistero pontificio, due orientamenti di nicchia, ma dichiaratamente agli antipodi, pur nell’indifferenza generale. Una parte dell’associazionismo laicale era su posizioni terzomondiste, vicine alle teologie sudamericane della liberazione. Il teologo gesuita Felice Scalia in un libro di quegli anni espresse simpatia per i movimenti popolari di lotta sociale, parlando con benevolenza dei “nuovi spartachisti”. Altra parte dell’intellettualità cattolica giudicava e giudica posizioni del genere cedimenti mondani alla sinistra politica, anche quando quelle stesse istanze sono declinate in prospettiva prettamente evangelica.
Dopo l’uccisione di un manifestante, il popolare gruppo rock irlandese degli U2, in concerto al vecchio Delle Alpi di Torino, dedicò genericamente una vecchia canzone del loro repertorio, Sunday Bloody Sunday, al rifiuto della violenza in ogni sua forma, come se anche la musica leggera di orientamento solidaristico risentisse il disagio dell’indicibile, il non sapersi dichiarare, prima di tutto, contro i soprusi visibilmente patiti in tanti spezzoni dei cortei e in tanti degli alloggi dei manifestanti.
È questa però sede di una riflessione giudiziaria di sistema, non di un bilancio politico. Quello, se si fosse voluto, avrebbe dovuto esser fatto molto tempo fa. Amnesty International e Human Rights Watch denunciarono apertamente il trattamento dei manifestanti come la più grave violazione dei diritti umani in un ordinamento democratico, in tempo di pace, sin dalla fine della Seconda Guerra mondiale. I procedimenti successivi alla fine del G8 accertarono l’intenzionale fabbricazione di prove false a danno dei manifestanti: uno scenario raccapricciante per l’operatore del diritto. Il processo penale liberale, esso stesso dispositivo ideologico, si basa comunque sia su un metodo dell’indagine diametralmente opposto: la prova si ricerca e la sua formazione, salvo casi tassativi, avviene in dibattimento e solo in dibattimento.
Nel 2015 la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia proprio in riferimento ai fatti di Genova per violazione dell’articolo 3 della CEDU e conseguentemente del divieto di trattamenti inumani e degradanti. Sconsolanti però alcuni procedimenti penali celebratisi presso la giurisdizione italiana. Quelli riguardanti le condotte illecite delle forze dell’ordine si scontrarono col limite della non identificabilità di molti dei responsabili e da allora un ampio movimento internazionale di attivisti ha patrocinato, sin qui vanamente, l’obbligo di codici identificativi su caschi e divise. I processi contro i manifestanti furono essenzialmente di due tipi: da un lato quelli di orientamento prevalentemente ideologico (ad esempio, il cd. “Sud Ribelle”) che hanno contestato per anni agli imputati reati associativi privi però di qualunque addentellato materiale, che dovrebbe invece essere a base del diritto penale sostanziale e processuale; dall’altro, quelli relativi a ipotesi di devastazioni e saccheggi, che sono apparsi in molti casi non meno impositivi, sul fronte patrimoniale delle pretese statali e sul piano delle richieste comminatorie di condanna, decisamente più aspre della media di volte in cui si procede per le medesime ipotesi delittuose.
L’Italia, in diciotto anni, non ha davvero ancora fatto i conti con queste pagine molto poco edificanti. Nel 2006 la Rosa nel Pugno (lista di radicali e socialisti) e Rifondazione Comunista proposero una commissione d’inchiesta sul G8 di Genova, mancando però poi la conclusiva formalizzazione e istituzione dell’organo. Possiamo concluderne che non fu necessariamente un male. È sufficiente sfogliare un manuale di diritto parlamentare, dai tempi della Commissione Moro in poi, per capire quanto la politica abbia vandalizzato un altrimenti preziosissimo strumento costituzionale, ora -sui vari temi- addivenendo a nulla, ora confezionando pezzi di verità di comodo inidonee a farsi sapere e giustizia collettiva.
Certo è che un paese non in grado di analizzare le proprie sconfitte difficilmente saprà partecipare del suo futuro.
Domenico Bilotti – Yairaiha onlus