Il 12 luglio è partita la quinta Carovana che quest’anno si svilupperà in due momenti ben distinti; il primo in Spagna e il secondo in Tunisia al confine con la Libia. Entrambi gli appuntamenti sono il risultato di convergenze, di lavoro comune sui temi delle frontiere interne ed esterne alla Fortezza Europa.
Nel sud dell’Italia, durante le sue precedenti esperienze, la Carovana italiana ha incontrato la Caravana Abriendo Fronteras, un collettivo che rivendica la buona accoglienza e i diritti di libertà di movimento per tutte le persone. La richiesta di rispetto dei diritti umani, degli accordi internazionali in materia di asilo e immigrazione, ha portato i due gruppi a lavorare insieme per dare visibilità e denunciare le situazioni in cui questi diritti vengono violati, e a rendere note le cause per cui le persone sono costrette a emigrare. Per questo la “doppia” carovana toccherà la frontiera sud dell’Europa passando per Granada, Motril, Tarifa, Ceuta, Algeciras, Jerez, Sevilla, Huelva e Lupe, terminando il 21 luglio.
Insieme a EuropeZarzisAfrique si svilupperanno le giornate tunisine, dal 1° al 5 agosto. Il gruppo si propone di agire alla frontiera, di fronte alla condizione dei migranti in Libia, con l’obiettivo di avviare delle attività economiche nella città di Zarzis che offriranno possibilità di formazione e di lavoro migranti in fuga dalla Libia e a giovani disoccupati di Zarzis. Questa città, sulla costa tunisina vicina alla frontiera con la Libia, è luogo di arrivo di migranti in fuga dalla Libia, luogo di partenza di molti giovani tunisini, luogo di ritrovamento di naufraghi da parte dei pescatori. Il programma di queste giornate prevede laboratori su progetti di economia alternativa e una marcia alla frontiera.
Come ogni anno la Carovana italiana porterà con sé dei testimoni, persone che hanno vissuto e vivono sulla loro pelle, in varie parti del mondo, il dramma della migrazione e della sparizione, ma che hanno deciso di non arrendersi e lottare non solo per se stessi ma per tutti coloro che si trovano in una condizione simile alla loro.
A Torino, il 9 luglio, presso il Caffè Basaglia, abbiamo incontrato due testimoni arrivati dal Messico. Ana Gricelides Enamorado ha partecipato nel 2016 alla carovana italiana. È la madre di Óscar Antonio López. Lo vide per l’ultima volta il 31 gennaio del 2008 quando lasciava l’Honduras. Da quel momento non ha mai smesso di cercarlo. Ora Ana vive in Messico e lavora con il Movimiento Migrante Mesoamericano continuando la ricerca del figlio ed aiutando tutti gli altri familiari a cercare i loro cari scomparsi. Nel suo racconto ci spiega l’evoluzione delle migrazioni dal centro America agli Stati Uniti, aumentate dal 2017 in seguito a peggioramenti politici in particolare in Honduras e in Salvador. Nel tentativo di tutelarsi rispetto ai pericoli che possono incontrare nel viaggio da soli, molti migranti hanno iniziato a viaggiare in carovane. Questi grandi gruppi, essendo seguiti dai media e da difensori dei diritti umani, hanno permesso almeno inizialmente dei vantaggi: nella prima carovana il governo messicano concesse 13000 visti umanitari. Ma in seguito la paura degli abitanti del Messico dell’arrivo di masse di poveri, paura cavalcata dalla politica, e le pressioni politiche ed economiche degli Stati Uniti sul Messico per chiudere la frontiera, hanno fatto degenerare la situazione. I migranti spesso scappano dal crimine organizzato e non possono tornare indietro perché verrebbero uccisi, allo stesso tempo non possono muoversi dai luoghi in cui sono confinati, principalmente il Chiapas o altre regioni povere e di frontiera. Morti e desaparecidos sono in aumento, e la loro ricerca parte sempre molto tardi perché è molto difficile per i familiari avere notizie dei loro cari emigrati. Il Movimento Migrante Mesoamericano, attraverso la Carovana delle madri che cercano i figli dispersi, ogni anno ritrova da 4 a 10 persone, negli anni ha ritrovato circa 300 persone. Il governo non ne ha ritrovata nessuna, a prova del fatto che è corrotto e non fa nessun tipo di ricerca.
Mario Vergara conduceva in Messico una vita normale fino alla scomparsa del fratello, rapito dalla criminalità. Da allora la sua vita è stata stravolta e, insieme alla sua famiglia e ad altre famiglie, cerca fosse comuni clandestine. Cercare i parenti scomparsi in vita sarebbe troppo pericoloso. Cercare i morti per dare loro una degna sepoltura, per poter dare un po’ di pace alle famiglie, è diventato il suo obiettivo principale. Il Messico è diventato purtroppo un paese che vive nel dolore delle morti e delle sparizioni forzate. Dal 2014 hanno trovato oltre 400 corpi e migliaia di pezzi di ossa. Non avendo sistemi e mezzi a disposizione, l’unica possibilità di identificazione sono tatuaggi, cicatrici o effetti personali particolari che, attraverso le indicazioni dei familiari, possono riportare alla loro identità.
Un destino comune, questo, alle migliaia di migranti che muoiono nel Mediterraneo e i cui corpi, anche una volta recuperati, devono poter essere identificati per poter ridare loro dignità e restituirli ai loro affetti.
Daniela Brina