L’odore del mare è forte, filtra attraverso le sbarre e sposa quello del caffè tostato dalle detenute del carcere femminile di Pozzuoli. Una miscela che profuma di libertà. Per (ri)conquistarla, insieme alla dignità perduta, in questa struttura a due passi dal porto, nata come convento nel 1700, adibita a manicomio giudiziario e oggi casa circondariale, è stata imboccata la strada del lavoro. È nata così, 19 anni fa, con il finanziamento della Regione Campania, la cooperativa Lazzarelle, vezzeggiativo dialettale che nel suo plurale, lazzari, ricorre spesso nella storia di Napoli. Un marchio per scrollarsi di dosso quello di pregiudicate, archiviare il passato e puntare al riscatto sociale.
Una locomotiva sbuffante fuori dal tunnel ai piedi del Vesuvio, è l’immagine che fino ad oggi campeggia sulle confezioni di caffè su fondo fucsia che qui, dal 2010, vengono prodotte e confezionate. Presto sarà sostituita dal logo, una tazzina stilizzata, disegnato dai ragazzi dell’Accademia di Belle Arti che cureranno anche l’immagine coordinata. Nel tempo l’attività si è infatti consolidata e oggi si producono 50mila pacchetti di caffè macinato da 250 grammi all’anno. È nata una collaborazione con l’Università Luigi Vanvitelli e con la cattedra di Economia Circolare per il riutilizzo degli scarti di produzione della torrefazione e sono state avviate nuove linee di prodotti, tè, tisane, biscotti, e nuovi progetti all’esterno del carcere. Tra questi l’apertura nella Galleria Principe di Napoli, di fronte al Museo Archeologico Nazionale, del «Bistrot Lazzarelle», vetrina di prodotti dell’economia carceraria.
Le voci di dentro
Nel carcere femminile di Pozzuoli sono presenti 198 detenute, più del doppio rispetto a quelle che potrebbe e dovrebbe ospitare. Solo chi ha una condanna definitiva può accedere al progetto. Negli anni si sono avvicendate 60 donne, regolarmente retribuite, uscite ogni mattina dalle celle in cui vivono fino a 8 persone, per partecipare a un’impresa di nome e di fatto. «Qualcosa di positivo per la prima volta nella mia vita», «Quando ritorno in cella ho la polvere di caffè fin nei calzini, però sono contenta», «Spero che questa esperienza mi faccia cambiare vita», «A colloquio ho parlato di questa esperienza con mia figlia, mia madre e mia nonna, erano fiere di me». Sono alcune voci di dentro che testimoniano l’importanza dell’iniziativa. A oggi il 90 per cento delle «lazzarelle», una volta finita la detenzione, non è rientrato nei circuiti criminali. Tirocinio con i maestri artigiani, un po’ di caffè bruciato, qualche errore di percorso prima di vincere la scommessa e sfidare il mercato.
«L’idea di fondo delle Lazzarelle – spiega Imma Carpiniello, presidente della Cooperativa – è quella di investire risorse umane ed economiche in un percorso di formazione e produzione. L’obiettivo è duplice: da un lato favorire il rapporto con l’esterno per evitare il rischio buco nero della detenzione; dall’altro costruire un’impresa capace di stare sul mercato con un prodotto artigianale etico e legato al territorio. Ma è anche un modo per ricordare e riaffermare che quando parliamo di politiche di pari opportunità bisogna costruire, nei luoghi dove le donne sono più vulnerabili, pratiche di inserimento e protezione sociale. Ecco allora che anche un caffè è un passo verso la strada della libertà». Una strada, e qui il discorso si sposta sul piano nazionale, resa più difficile per la condizione femminile in carcere.
«La bassa percentuale di donne detenute – sottolinea Carpiniello – è alla base di una generale tendenza a ignorarne i problemi. Le poche donne rinchiuse in carcere, il 5 per cento rispetto alla popolazione carceraria, sono costrette a scontare insieme alla pena il disagio di essere una minoranza in un universo pensato e organizzato sui bisogni e le caratteristiche del detenuto medio, di sesso maschile. Acquistati i chicchi da aziende che seguono progetti di cooperazione internazionale parte la lavorazione. Dal carcere al consumatore. Tostatura, secondo l’antica tradizione napoletana, lenta, 30 minuti, raffreddamento all’aria per evitare shock termici, poi nei silos dove il chicco dopo 10-12 giorni arriva a maturazione e infine macinazione, seconda gassificazione e imballaggio sottovuoto. I canali di vendita sono le piccole botteghe, le fiere o il sito caffelazzarelle.jimdo.com.
Funzione sociale
«Il carcere – dice Carlotta Giaquinto, direttore della casa circondariale di Pozzuoli – è il luogo in cui tutto si ferma e dove la società civile pensa di poter relegare ogni problema di criminalità. Ma l’unico modo in cui il carcere può realmente svolgere una funzione sociale è il recupero, attraverso la cultura e il lavoro, delle persone che vi transitano. La Cooperativa Lazzarelle è una risorsa fondamentale ed è interesse della Direzione favorirne quanto più possibile la crescita per accompagnare le detenute con i dovuti requisiti verso un reingresso nella società supportandone l’integrazione».
«Lazzarelle non si nasce, si diventa», è la scritta che personalizza le tazzine made in carcere. Una citazione, ispirata a Simone de Beauvoir, scrittrice, saggista, filosofa, insegnante e femminista francese, con la sostituzione della parola donna con quella della cooperativa. ’Na tazzulella ’e cafè e mai niente ce fanno sape’cantava Pino Daniele, denunciando a modo suo le mani sulla città. Qui invece il caffè, con il suo valore simbolico di relazione e condivisione, è anche e forse soprattutto, una mano tesa che chiede solo di essere stretta.
Bruno Delfino da Corriere.it