Al tribunale di Locri continua il processo contro Lucano, il 10 e il 16 luglio ci sono state altre due udienze, le ultime prima dell’interruzione estiva, per poi riprendere l’11 settembre. Come avevamo fatto per le tre udienze di giugno, proviamo a dare una valutazione di quanto è successo in queste udienze dal nostro punto di vista di cittadini interessati a monitorare il processo e a farne conoscere all’opinione pubblica la materia viva su cui si incentra. Siamo certi che questa materia sia di vitale importanza per i molti di noi che di Lucano condividono i valori dell’accoglienza, della solidarietà e dell’umanità
Si tratta di un punto di vista diverso da quello giudiziario; abbiamo già detto che non vogliamo entrare nei meccanismi del processo. E’ chiaro che i rilievi che il presidente Accurso continua a muovere ai testimoni dell’accusa, di imprecisione, confusione, scarsa documentazione, ecc., non ci lasciano indifferenti; sono segnali importanti della volontà dei giudici di ricostruire un quadro di verità, sotto il fumo di supposizioni in cui il processo è nato. Ma il nostro obiettivo è un altro: capire perché si è sparso quel fumo, cosa si vuole effettivamente attaccare e delegittimare. Vogliamo ragionare pubblicamente su cosa esattamente si sta processando, su quali azioni vengono trattate come reati, quali idee additate come illecite, nella misura in cui riteniamo queste azioni e queste idee parte integrante delle nostre libertà.
Innanzitutto, facciamo un po’ di informazione su quanto è avvenuto in queste udienze, visto che gli articoli di stampa sul processo scarseggiano, mentre nei quotidiani governativi impazzano macchine del fango e campagne di disinformazione sugli eventi artistici realizzati a Riace dalle giunte di Lucano.
L‘udienza del 10 luglio si è aperta con le dichiarazioni spontanee di Mimmo Lucano, che per la prima volta ha parlato al processo per dare, ha detto, il suo contributo alla ricostruzione della verità. Ha ricostruito l’integrazione a Riace, mettendo in evidenza il senso del lavoro fatto: coinvolgere migranti e comunità locale in un progetto di cambiamento complessivo, raccordando integrazione e sviluppo locale e adottando una serie di misure di antimafia sociale. Ha rivendicato quel sistema di nuove opportunità di lavoro (laboratori, fattoria didattica, frantoio, turismo solidale) e di servizi (scuole, ambulatorio medico, acqua pubblica, raccolta differenziata) che è stato messo in piedi a Riace e ha permesso a tanti giovani di trovare un’alternativa all’emigrazione. Ha richiamato l’importanza che Riace ha assunto nella regione, rappresentando un punto di sfogo nei momenti più critici degli sbarchi cui volentieri ricorrevano Viminale e Prefettura, al punto che in Prefettura lo chiamavano “San Lucano”. “Io ho assecondato le loro richieste perché quella gente aveva bisogno. Ho sempre detto di sì, anche perché vedevo che Riace stava crescendo, anche esteticamente, diventava più bella, più viva” [citato da A. Candito, La Repubblica 10/7/2019]. Ha rivendicato tutto quello che ha fatto, sottolineando che non si è mai mosso per interesse: “E’ sempre stata solo una missione politica e umana”. Ha poi ripreso i vari passaggi che dalla prima ispezione del 21 luglio 2016 hanno portato alle ispezioni successive, che muovevano rilievi, ma erano anche in contraddizione fra loro, tanto che il prefetto nel 2017 ne dispone una ulteriore più approfondita che riabilita il sistema di Riace. Ha parlato anche apertamente della questione che già è stata al centro delle udienze precedenti, i lungo permanenti: “Io mi rifiuto di pensare che dopo 6 mesi di permanenza di una famiglia si possa mandar via le persone, far interrompere ai bambini la frequenza della scuola, o altro”.
In seguito, nelle due udienze si sono succedute le testimonianze di funzionari della prefettura di Reggio Calabria (Salvatore del Giglio, Maria Grazia Surace, Salvatore Gullì) sulle ispezioni nel CAS e SPRAR di Riace e sulle irregolarità rilevate. Si spazia da affidamenti dei servizi senza gara (ma le gare non erano obbligatorie a quell’epoca), a presenze nel CAS che non avrebbero più dovuto esserci, a rendicontazioni poco convincenti.
Anche qui, come per le precedenti, non è nostra intenzione seguire il dettaglio delle questioni tecniche sollevate; possiamo solo rilevare contraddizioni fra delle premesse in cui si apprezza l’integrazione dei migranti con la comunità locale, e il lungo elenco delle anomalie riscontrate, che però si sperdono in imprecisioni, confusioni, vuoti di memoria e incompetenze di vario genere. La sensazione è che gli ispettori non conoscano il territorio (alcuni di loro non sono nemmeno mai stati a Riace e hanno lavorato su dati riferiti); che non abbiano piena consapevolezza della normativa in vigore nei vari periodi; che non tengano conto della diffusione di certe problematiche nella gran parte dei CAS e SPRAR in Italia; che spesso non conoscano le differenze fra i due sistemi, in particolare in termini di erogazione fondi e rendicontazione. Ne esce un quadro confuso che non aiuta a distinguere il potenziale illecito amministrativo da eventuali responsabilità penalmente rilevanti e fa scattare a più riprese il Presidente Accurso, che deve correggere, precisare il contesto normativo e chiedere maggiore chiarezza e documentazione più consistente.
Questo per l’informazione. Ma nel nostro monitoraggio vogliamo valutare il contenuto che questi rilievi tendono a mettere in discussione; perché se si trattasse solo di irregolarità o errori nel rendicontare, non saremmo in un processo penale. Cos’è dunque che si prende davvero di mira in questa disamina di CAS e SPRAR di Riace? Certo, la storia di CAS e SPRAR nel sistema di accoglienza pubblico in Italia è complessa: rappresentano due livelli, un primo livello di accoglienza straordinaria in centri tenuti dalle Prefetture e un secondo livello affidato ai Comuni, dove dovrebbe realizzarsi un’integrazione diffusa nel territorio. Al termine delle condizioni straordinarie, i soggetti di protezione dovrebbero entrare nel circuito degli SPRAR; in realtà, la sproporzione di posti disponibili rimane molto forte a vantaggio dell’accoglienza straordinaria e crea un imbuto che ostacola il passaggio al secondo livello.
Secondo i Rapporti sulla protezione internazionale in Italia, a fine 2016 il 73% dei richiedenti asilo era nei CAS e solo il 19% negli SPRAR; un anno dopo lo SPRAR era sceso al 15%, mentre i CAS assorbivano più del 77%, sebbene già nel 2016 una circolare ministeriale annunciasse la sparizione dei CAS a favore degli SPRAR. I Rapporti denunciano molta confusione fra i due sistemi e l’insufficienza di posti negli SPRAR; di questi ultimi, denunciano anche i tempi brevi di copertura (6 mesi eventualmente prorogabili), che non sempre bastano ad avviare una vera integrazione. Insomma, chi dovrebbe uscire dall’accoglienza straordinaria ed entrare nello SPRAR molto spesso non può farlo, tanto è vero che si può presentare istanza di deroga per casi specifici.
Questa è la situazione generale in Italia. Vista attraverso le ispezioni a Riace, però, serve a far riapparire, nei confini incerti fra le due istituzioni, quella figura che già abbiamo visto nelle udienze precedenti essere al centro delle accuse a Lucano: i lungo permanenti, che lui stesso dichiara apertamente di aver tenuto a Riace e per i quali ha presentato molte domande di deroga allo SPRAR, almeno in parte accettate. La questione dei lungo permanenti si gioca tutta qui, nel gioco ad incastro fra le due istituzioni dell’accoglienza e nelle loro fragilità. Se non ci sono posti disponibili nello SPRAR, restano al CAS, stabiliva la circolare Morcone fino al 2016 e i Rapporti confermano che è successo così anche molto dopo quella data; ma non avendo più diritto, la Prefettura non riconosce più i fondi (dice Surace che ad un certo punto si accorgono che 37 persone non dovevano più essere nel CAS e decurtano i fondi). Dunque se restano a Riace, restano praticamente a spese del Comune; né tolgono posti ad altri, visto che sono fuori dal CAS e che il Comune di Riace, come ammette Surace, non ha mai rifiutato di accogliere qualcuno ogni qualvolta la Prefettura glielo ha chiesto. Se invece sono nello SPRAR, e i 6 mesi del progetto non sono sufficienti a metterli in una condizione di autonomia, restano a Riace perché Lucano si rifiuta di mandarli via per “serie e gravi ragioni umanitarie”; ma anche qui non ci sono più fondi a loro destinati in quanto il progetto SPRAR è terminato.
Insomma, i lungo permanenti di Riace non comportano altri costi, sembrano essere un reato di per sé.
In sostanza l’anomalia rappresentata dai lungo permanenti si conferma come il centro anche di queste deposizioni, ma neanche queste deposizioni riescono a fondare il sospetto che siano stati fonte di lucro. Anzi, a più riprese il Presidente rileva una carenza di controlli da parte della Prefettura, che pare accorgersi tutt’a un tratto di irregolarità fino ad allora tollerate e altrove evita perfino di perseguirle. Torna allora con forza la domanda da cittadini che ci siamo già poste: tener conto della vulnerabilità delle persone e quindi dei tempi loro necessari per riconquistare un’autonomia di esistenza è un dovere di umanità, o un reato? Non potrebbe essere questo il cuore di una politica migratoria diversa, che rispetti i diritti umani e il dettato costituzionale? E’ in questo senso che nel processo a Lucano crediamo siano in gioco le nostre libertà.
Donatella Murolo Latella, Giovanna Procacci, Marcella Stagno (Comitato Undici Giugno)