Ad essere sotto processo è un gruppo musicale, Grup Yorum nato nel 1985, accusato di terrorismo dallo stato turco per aver scritto e cantato canzoni in favore della resistenza al regime di Erdogan. I concerti in Turchia sono proibiti da due anni, io sono stato nel 2014 per la prima volta ad un loro concerto gratuito, dove c’erano un milione e mezzo di persone. Hanno addirittura aperto una scuola di musica dedicata a Berkin Elvan, un ragazzino di 14 anni ucciso dalla polizia turca durante la manifestazione nel 2013 al Gezi Park. Al processo sono andato come osservatore per dire che ci siamo noi dall’esterno, «vi stiamo guardando» e il processo deve andare secondo determinate regole.
Sappiamo che ti hanno arrestato, hai avuto paura?
Ti rispondo con le parole di un avvocato in carcere da due anni: «Voi pensate che noi non abbiamo paura, noi abbiamo paura e non la nascondiamo, ma continueremo a resistere. La paura è un sentimento umano, che va confessato, però mai diventarne schiavi». Il mio arresto mi è sembrato un’operazione stile Hollywood, con agenti speciali, elicotteri. Eravamo io, un amico più anziano, due ragazzini di un gruppo musicale e ci trovavamo al centro culturale chiamato Idil. Sono entrati incappucciati, con fucili puntati, ma è stata solo un’operazione d’immagine.
Come sono le prigioni in Turchia e come hai vissuto quei giorni?
La cella di isolamento, dove sono stato il primo giorno, aveva luci al neon altissime sempre accese, nessuna possibilità di dormire se non a terra in mezzo a scarafaggi e piattole. C’erano tracce di sangue ovunque: sulle porte, sui pavimenti, sulle finestre, le lasciano lì per intimidire gli arrestati. Il secondo giorno sono stato messo in una cella dove eravamo in sei, con quattro mezze brande per dormire, quindi i due più giovani dormivano per terra. Un sabato sera ho chiesto un medico per un amico iraniano che stava male; io faccio il veterinario, avevo dei miei farmaci con i quali sono riuscito a curarlo. Dopo tre giorni lo hanno autorizzato ad andare in ospedale, quando ormai era guarito.
Quella in Turchia si può chiamare giustizia?
In Turchia c’è stato un colpo di stato due anni fa e quello che è cambiato soprattutto è che non esiste più la possibilità di avere una difesa adeguata. Ci sono 17 avvocati del popolo progressisti sotto processo. Prima leggiamo la notizia che sono stati tutti liberati e cinque ore dopo sono stati rimessi in carcere. Il potere politico ha detto al giudice: «o in carcere ci vai tu o ci vanno loro».
Possiamo parlare di dittatura?
Esiste un regime autoritario come ai tempi dell’impero ottomano, tanto che Erdogan viene individuato come un nuovo sultano, quindi tutto quello che non gli va, lui lo chiama terrorismo manda i suoi oppositori in carcere. Questi ragazzi (Grup Yorum, ndr) arrestati, avrebbero potuto fare la vita da artisti, avere tanti soldi per fare concerti e incidere canzoni, e invece hanno preferito essere musicisti in difesa del popolo, come gli avvocati ed è per questo che sono molto amati. Gli avvocati italiani che sono entrati in contatto con loro sono tornati in Italia dicendo «abbiamo scoperto cosa significa fare l’avvocato». A me vengono i brividi a sentirlo.
Secondo te cosa pensa la maggioranza del popolo turco di Erdogan?
Bella domanda, secondo me è un paese spaccato in due. C’è una parte che lo tratta come se fosse un eroe e c’è un’altra parte che lo odia. La domanda è: ha senso fare ancora elezioni in Turchia? Il problema è che quelli che pensano che non si possa vivere in questo modo non rischiare la vita scappano. In Europa se fosse successa la stessa cosa durante l’occupazione nazista quella ideologia sarebbe ancora qua. Pensate solo al caso degli insegnanti che vengono licenziati perché sospettati di avere qualche correlazione con il partito comunista.
Hai degli amici in Turchia?
Un agente dell’antiterrorismo turco mi disse: «tu hai dei brutti amici in Turchia». Brutti amici per lui, io ho tanti amici, tanti. Una delle soddisfazioni più grosse è stata quando arrivò la notizia del mio arresto a Rai News 24; una giornalista che stava a Istanbul era andata ad intervistare alcuni miei amici sparsi per la città, che avevano organizzato presidi per la mia liberazione e chiedeva: «Conosci Gianfranco Castellotti?». Una ragazza turca che, giuro non so chi fosse, gli rispose: «Sì, Gianfranco lo conosciamo, è sempre qua». Ho anche amici turchi che stanno in Europa, fanno parte di quella diaspora turca sparsa nel vecchio continente, dove il regime turco agisce in vari modi, facendo delle liste con nomi e cognomi dei cittadini ormai europei, ma con una taglia messa dal regime che possono essere estradati in Turchia.
Oltre alla Turchia ti occupi di altro come attivista?
Faccio anche altre cose, sono stato nei posti più brutti al mondo, in Siria, in Donbass (est Ucraina), dove c’è in corso una guerra civile dal 2014. In Siria siamo andati ad incontrare la popolazione locale in stato di guerra. In Donbass invece vado almeno due volte all’anno perché, con il gruppo musicale La Banda Bassotti, abbiamo preso in carico alcuni orfanotrofi. Portiamo farmaci, giocattoli, omogenizzati, pannolini, pasta… quella in Donbass è una guerra dimenticata. Il fotografo Andrea Rocchetti è morto lasciando un bimbo e una moglie, la sua foto più famosa è di bambini dentro un rifugio antiaereo. Questi bambini da quando sono nati non hanno visto altro che bombe, io lo trovo insopportabile.
Le tre frasi che ti piacciono di più?
Io non ne ho, l’unica cosa che vi posso dire è dubitate sempre, mettete in discussione tutto. Se non sapete, domandate sempre e sviluppate lo spirito critico. Siate critici sempre, perché è questa la caratteristica più bella che possiamo avere. Il giornalismo è la cosa più importante che possiate fare e lo state facendo per voi e per le generazioni future, io vi ammiro per quello che state facendo.
Ti piace la Turchia?
Da morire, da morire. Un giorno penso che ci torneremo, andremo in piazza Taksim e ci festeggeremo il 1° Maggio. È stimolante vedere oggi in Turchia ragazzi di 14 o 15 anni che non hanno televisione in casa, non hanno PC, e per essere informati si mettono a leggere i quotidiani, la pagina nazionale e la discutono con i propri genitori. Voi fate un giornale e fate benissimo, mantenete il vostro spirito critico al servizio dei vostri pensieri. Non vi fidate di niente, nemmeno di quello che vi ho raccontato io oggi, andate a verificare come stanno le cose.
Grazie Gianfranco per il tempo che ci hai dedicato e per l’intervista che ci hai concesso.
Grazie a voi. L’articolo che scriverete lo mandiamo a tutti gli amici in Turchia. Già ho visto su uno scorso numero di ABC che si parlava di Yemen, lo invieremo a qualche giornalista europeo che si lamenta sempre che non si parla abbastanza di quella guerra. Gli facciamo vedere che in alcune realtà italiane ragazzi giovani sanno scrivere cose molto interessanti più di tanti in questo paese.
Margherita Pittella (12 anni), Niccolò D’Urso (10 anni)
Mohamed Elserwy (12 anni), Nor Amed (12 anni)