Pubblichiamo di Rodrigo Rivas, l’introduzione al dibattito che si tenne in occasione della marcia della pace del 2011, sul tema “Nonviolenza e protesta in atto in Europa contro ciò che la politica chiama crisi e che, invece, è un attacco alla democrazia.” Rivas, economista cileno, già deputato in Parlamento ai tempi di Allende e Neruda, in questa riflessione del 2011, affronta in modo oggi ancora più attuale, il tema della Nonviolenza e della violenza di stato.
Nonviolenza e violenza di stato
Al di là di opzioni propagandistiche che prescindono spesso dall’analisi delle condizioni reali, del tipo “senza se e senza ma”, e cioè a prescindere, si deve osservare che come ogni opzione politica l’opzione nonviolenta è discutibile. Naturalmente, osservando l’attuale moltiplicarsi delle proteste in Europa, è d’obbligo concludere che la scelta pacifista è stata l’opzione indiscussa del movimento, dalla Grecia alla Spagna, dal Portogallo all’Inghilterra, dal Belgio all’Italia…
La maggiore virtù dell’alternativa nonviolenta è che toglie prestigio alla repressione e concede una forte autorità morale al movimento. Il suo inconveniente è che risulta difficile determinare i confini tra l’antagonismo costitutivo della politica e la violenza. Ad esempio, per alcuni è violento che si occupino le piazze pubbliche o si metta in discussione la legittimità del parlamento e delle autorità di governo. Altri considerano violento che si votino leggi contrarie all’interesse generale per rispondere pedissequamente al diktat dei poteri economici e finanziari, che si licenzino migliaia di persone, che ci siano milioni di disoccupati ecc..
Ma, al di là delle opinioni personali, bisogna riconoscere che seppure in tutti questi casi, dalla Puerta del Sol a Piazza Sintagma, non c’è alcuna traccia di violenza fisica tradotta in colpi o lesioni, indubbiamente si verifica un’aggressione estremamente reale, contro le istituzioni o contro la maggioranza dei cittadini. Nulla comunque, se confrontate alle espressioni ascoltate a Pontida, dal “capo”o dai suoi travestiti ministri vociferanti.
Lo Stato non sceglie né può scegliere la nonviolenza. Non può farlo mai perché, per esistere, ha bisogno di avere permanentemente a disposizione i gruppi di “uomini armati” che costituiscono i suoi eserciti e polizie. Perché lo Stato è Stato nella stessa misura in cui dispone della forza violenta più potente su di un territorio.
Monopolio della violenza
La famosa caratterizzazione dello Stato fatta da Max Weber, “monopolio della violenza legittima”, è in un certo modo circolare: il monopolio della violenza è legittimo solo quando la propria violenza, in concorrenza con altre, si è impossessata di questo monopolio. Detto diversamente: non è la legittimità a concedere un monopolio della violenza. Anzi, al contrario, è il monopolio della violenza a sostentare la legittimità. Per qualsiasi movimento che intende mettere in discussione l’ordine esistente e le sue istituzioni, il problema della violenza equivale a decidere sul rispetto del monopolio statale della violenza. Evidentemente, questo monopolio deve essere messo in discussione se si cerca un cambiamento politico e sociale radicale, ma esistono diverse forme per farlo.
La forma più evidente è quella di violare il monopolio e di praticare la violenza, come hanno fatto le organizzazioni che lo Stato denomina “terroriste”, che cioè hanno violato e violano il monopolio statale del terrore e della intimidazione violenta delle popolazioni. Il problema di questa posizione è che, salvo costruire progressivamente una potenza di fuoco che possa superare quella del proprio Stato mantenendo nel contempo un forte vincolo con i movimenti sociali e le organizzazioni politiche (com’è avvenuto nelle rivoluzioni effettivamente realizzate, ad esempio a Cuba o nel Nicaragua, qualunque sia il giudizio a posteriori), l’organizzazione che sfida il monopolio statale della violenza corre il rischio di legittimare lo Stato con ognuna delle sue azioni, come dimostra, ad esempio, la storia degli “anni di piombo” italiani. E da questo risultato non si può scappare, proprio per la logica implacabile del regime di legittimazione dello Stato moderno.
Fin da Hobbes, lo Stato moderno fonda la sua legittimità sul fatto che mette la parola fine a una teorica situazione di guerra civile generalizzata. Nel mitico “prima”, ossia nello “stato naturale” che precede la fondazione dello Stato, la mancanza di limiti dei desideri umani metteva di fronte gli individui impegnandoli in una guerra “di tutti contro tutti”. La violenza circolava liberamente e, pur se alcuni potevano disporre di un maggiore potere violento di altri dopo avere concluso alleanze contro un nemico comune o per altre circostanze, nessuno poteva spontaneamente impossessarsi del monopolio della forza. Il momento fondante dello Stato, secondo Thomas Hobbes, è quello in cui i diversi individui stringono un patto tra di loro per consegnare tutto il loro potere (e in particolare tutta la loro capacità di esercitare la violenza) a uno solo, a una persona individuale o collettiva che diventa il sovrano. Il monopolio della violenza così acquistata dal sovrano è garanzia di pace e sicurezza per tutti quelli che diventano mediante il patto i suoi sudditi. Secondo Hobbes, questo patto deriva “dal mutuo rapporto tra protezione e ubbidienza” (“Leviathan”).
In astratto, non c’è una grande differenza formale tra questo rapporto ubbidienza/protezione e il vecchio patto mafioso tramite il quale la mafia costringe la popolazione a ubbidirle e a pagarle tributi in cambio di “protezione”. In concreto, ciò che differenzia lo Stato dalla mafia è il monopolio della violenza al quale la mafia non può accedere e che lo Stato mantiene formalmente. Grazie al carattere mitico e giustificatore del “patto”, liberamente sottoscritto dagli individui, afferma Hobbes, lo Stato è non soltanto un potere invincibile ma, soprattutto, è un potere legittimo.
Questa invenzione giuridica sull’origine sempre giuridico, ossia contrattuale, del proprio diritto, è il solo modo di cui dispone Hobbes per impedire che il diritto si riduca alla mera espressione di un rapporto di forza. Sappiamo bene che un’altra linea della modernità filosofica, che spazia da Machiavelli a Marx passando per Spinosa, accetta invece, come fondamento della vita politica e del diritto, il rapporto di forza tra la moltitudine e il sovrano, evitando il paradosso di un’origine giuridica del diritto e rifiutando come pura mistificazione la problematica della legalità. Ma il fatto è che Hobbes ha vinto. Almeno per ora. Secondo la concezione giuridica dominante, nelle specifiche condizioni di scambio tra ubbidienza e protezione in regime di monopolio che caratterizzano lo Stato moderno, ogni violenza privata equivale a una rimessa in scena dello stato di natura iniziale e giustifica la paura legata al ritorno della dinamica che scatena la guerra civile e il caos. Detto diversamente, lo Stato sovrano non solo si legittima grazie al patto, ma anche grazie alla paura costante del ritorno, con qualsiasi atto di violenza non statale, della guerra civile e del caos generalizzato.
Una paura di fondo
È essenziale per lo Stato coltivare questa paura, perché mai si dimentichino sia il motivo del patto che dell’ubbidienza. Infatti, lo Stato contemporaneo si basa, sia quando adotta forme di eccezione (dittature, sospensione dei diritti ecc.), sia quando adotta le sue figure “normali”, su un meccanismo di retro-alimentazione in base al quale ogni atto reale o immaginario che metta in discussione il suo monopolio della violenza, finisce per rinforzarlo. Il paradosso della disubbidienza violenta è proprio questo: finisce per rinforzare l’ubbidienza. Nelle condizioni esistenti, infatti, ogni violenza politica non statale si riduce automaticamente a banditismo e delinquenza e diventa, qualunque sia la sua motivazione, un oggetto di paura per la popolazione e una fonte di legittimazione del sovrano. Tuttavia, il sovrano è costretto a fare i conti con l’indefinizione dei limiti della violenza, perché lo stesso atto, qualsiasi tipo di atto, può o meno considerarsi violento in funzione delle circostanze o degli attori. Perciò, per lo Stato è vitale non soltanto disporre del monopolio della violenza ma, anche, del diritto esclusivo a definire ciò che è violento.
Diciamolo con San Paolo: “Senza legge non c’è peccato”. Ovvero, per il necessario scontro tra le passioni e gli interessi umani, ogni esistenza sociale implica necessariamente un determinato grado di violenza. Proprio perciò, lo Stato non può avere la pretesa di mettere fine ad ogni violenza, a cominciare dalla sua. Ciò che lo Stato può fare è identificare come violenti alcuni atti, ignorando la violenza di altri e tollerandoli. Per dirla con Carl Schmitt, “sovrano è chi designa il nemico” (“Il concetto del “Politico”). Jacques Derida commenta: “Lo spazio politico non esisterebbe senza la figura del nemico e senza la possibilità determinata di una vera guerra. La scomparsa del nemico segnerebbe l’inizio della depoliticizzazione, la fine del politico. Il nemico permette di identificare la violenza, il riconoscimento dei pericoli e quindi, la possibilità della difesa, della protezione e della tranquillità. Il riconoscimento dell’altro, dello straniero, del nemico, permette la costruzione dell’identità politica” (”Opere scelte”). Oggi potremmo dire che “sovrano è chi designa il terrorista” o, più in generale, il “violento”.
Richiamo alla nonviolenza
Nel contesto odierno, il richiamo alla democrazia e alla nonviolenza rappresenta una delle grandi conquiste del movimento. È grazie alla sua opzione “pacifista” che si è potuto osservare, spesso in modo estremamente chiaro, il funzionamento del meccanismo di retro-alimentazione appena descritto. Pur se i media cercano comunque di ignorarlo, il rifiuto rigoroso di ogni violenza fisica da parte del movimento ha costretto in più occasioni lo Stato a mettere in scena artificiosamente la violenza esercitata dai suoi corpi repressivi.
Infatti, ciò che maggiormente sorprese nel movimento degli “Indignati” fu l’immensa tranquillità della loro indignazione e la loro scarsa vulnerabilità alle costanti provocazioni della polizia infiltrata o uniformata. Questo atteggiamento ha avuto l’effetto di un reagente chimico, dividendo chiaramente la violenza dalla convivenza pacifica e dalla autentica vita politica, e mettendo tutta la violenza sul conto dello Stato. In questo modo, lo Stato non si dimostra violento soltanto per la sua politica sociale ed economica apertamente favorevole al capitale finanziario e apertamente contraria agli interessi vitali della sua popolazione ma, anche, perché i suoi corpi repressivi, incapaci di realizzare una provocazione efficace, sono costretti alla drammatizzazione impotente sempre con la complicità dei media di scene di guerra civile inventate di sana pianta (basterà consultare i numerosi video su Atene, Madrid o Barcellona nella rete).
La messa sulla difensiva del sistema di retroalimentazione della violenza sovrana trasformata in violenza gratuita, ovvero l’obbligo che la potenza del movimento ha imposto a questo sistema di retro-alimentazione costringendolo a funzionare in circuito chiuso, rappresenta un successo di dimensioni colossali che conferma la correttezza della opzione nonviolenta. Infatti, nelle attuali circostanze, ormai il regime riesce a funzionare solo in modo delirante. Poiché è difficile non definire come delirio, ad esempio, coloro che considerino violenza la libera discussione nelle strade e nelle piazze, la resistenza passiva a una carica della polizia, l’opposizione al licenziamento dal proprio posto di lavoro, il recupero della vita civile, l’esistenza politica di tutto ciò di cui lo Stato capitalista priva i suoi sudditi attraverso i suoi sistemi hobbesiani di rappresentanza/protezione.
Fino ad oggi lo Stato sovrano aveva tra le sue facoltà il monopolio della identificazione della violenza. Oggi la popolazione ogni volta che riesce applicare i principi della Nonviolenza, di fatto gli toglie questo privilegio senza pretendere minimamente di disputargli il monopolio della violenza fisica: se tutta la violenza è dalla sua parte, da quella della popolazione civile c’è invece la potenza costituente dell’indignazione.