L’Onu afferma che due terzi delle terre coltivabili del continente sono a rischio desertificazione entro il 2025. Ogni anno il deserto avanza di un paio di chilometri, generando una perdita annuale di circa 2 milioni di ettari di zone verdi. Le cause sono tante: l’aumento della temperatura, pratiche agricole sbagliate, il taglio indiscriminato delle foreste, l’impoverimento dei pascoli per lo sfruttamento degli allevatori.
Ciò alimenta il più antico conflitto al mondo: tra pastori e coltivatori; tra Caino e Abele. I conflitti etnici vanno accentuandosi e tra i due litiganti lo Stato Islamico avanza con il deserto, occupa, chiude l’accesso alle scuole alle ragazze.
Gli esempi sono molti. Dal Mali sino al Kenya tutti i paesi dove avanza il deserto vedono avanzare anche chi abita il deserto come le popolazioni nomadi e indietreggiare chi abitava quei luoghi e coltivava quei terreni. In Ciad, per esempio, la siccità sta prosciugando il suo lago principale il cui specchio si è ridotto del 90% rispetto agli anni ’60; la popolazione è stremata con 2,3 milioni di profughi, 10 milioni gli affamati e mezzo milione di bimbi denutriti. Boko Haram ne approfitta per affrontare una popolazione allo stremo, un esercito alla fame e avanzare inesorabilmente verso sud e conquistare la capitale N’Djamena.
Come uscirne? Con una rivoluzione verde! Certo potrebbe essere una delle opzioni sul tavolo (condizione necessaria ma non sufficiente) che va in parallelo con i buoni uffici, la diplomazia, una politica che va oltre l’emergenza. Ma la piantumatura di alberi e cereali antichi possono dare risposte plurime ai Mali d’Africa. Questa rivoluzione:
- ferma o, meglio, rallenta l’avanzata del deserto da nord;
- ricrea un microclima umido che favorisce le piogge;
- trattiene l’acqua durante le forti piogge stagionali prevenendo l’erosione del suolo;
- cattura la CO2;
- fornisce legna per riscaldarsi nella stagione delle piogge e per le costruzioni degli stanziali;
- offre un habitat agli animali selvatici e domestici;
- da “sicurezza alimentare”;
- allenta le tensioni tra pastori e agricoltori con i primi che hanno mandrie assetate e affamate e invadono i campi dei secondi.
Ma di cosa si tratta? Di una muraglia stile cinese? Affatto! Si tratta di una serie di progetti statuali di agroforestry (agroforestazione) che consente la coltivazione di cereali antichi in coabitazione con alberi. La Great Green Wall coinvolge direttamente 11 nazioni subsahariane: Nigeria, Senegal, Niger, Mali, Burkina Faso, Mauritania, Ciad, Sudan Gibuti, Eritrea ed Etiopia; a questi si aggiungono altri nove paesi partner africani. È finanziata e sostenuta dalla Banca Mondiale e dalle Nazioni Unite; ha ottenuto l’appoggio dell’Unione Africana nel 2007 e ha incassato finanziamenti anche dalla COP21, la conferenza sul clima che si è tenuta a Parigi nel 2015.
Il Senegal si è dotato di un’agenzia per seguire il progetto. Ha piantato quasi 12 milioni di alberi, su una superficie di 40 mila ettari, recuperando 25 mila ettari di terreni aridi. In Nigeria si sono creati, con questo progetto, più di 20.000 posti di lavoro. Purtroppo, in Mali, Burkina e Niger dove vi sono tensioni con gli invasori il progetto va a rilento. Il Kenya, che sta soffrendo una siccità mai vista negli ultimi 40 anni, ospita l’agenzia delle Nazioni Unite per l’ambiente UNEP (l’organizzazione che organizza le conferenze sull’ambiente COP) con sede a Nairobi e, inoltre, in questo paese c’è stato il primo premio Nobel per la Pace africano donna, già viceministra all’ambiente Wangari Maathai che con la sua Green Belt Foundation piantò quasi 40 milioni di alberi. Ho avuto la fortuna d’incontrarla e conoscerla in quanto anche il nostro piccolo progetto “Tree is Life” (albero è vita) s’ispirava alla sua incessante azione di piantumazione.
Ma l’agroforestry della muraglia verde prevede sì la piantumazione di alberi ma anche di cereali. Uno su tutti il fonio che è tra i cereali più antichi utilizzati dagli esseri umani per la loro alimentazione e sembra che già nel 5000 a.C. fosse coltivato in Africa nei paesi della muraglia verde. Il fonio bianco si ricava dalla Digitaria exilis, pianta erbacea della famiglia delle graminacee; esiste però anche il fonio nero la cui produzione avviene a partire dalla Digitaria iburua.
A livello nutrizionale, le caratteristiche principali che vanta sono di essere senza glutine, di contenere quattro volte le proteine, tre volte le fibre e quasi il doppio del ferro rispetto al riso integrale, oltre a molti sali minerali (magnesio, calcio e zinco). Insomma, un “super grano” con basso indice glicemico. Si tratta poi di un cereale leggero e facilmente digeribile (di contro ne occorre di più per saziarsi) che assomiglia nell’aspetto al più noto e utilizzato cous cous maghrebino. Il fonio convive con diversi tipi di alberi permettendo la riforestazione sovradescritta. Il Mali è nato dall’esplosione di un chicco di fonio e del fonio è stato trovato in vasi nelle tombe in Egitto. Insomma, riappropriarsi di antichi saperi e sapori potrebbe aiutare, e non poco, l’Africa subsahariana a risollevarsi, prender forza e resistere ai nuovi invasori.
Articolo di Fabio Pipinato
Da Wsimag.com