Punta Penna, Vasto. E’ una spiaggia che da diversi anni conquista riconoscimenti nazionali e internazionali, cuore di una Riserva Naturale – Punta Aderci – che da poco ha festeggiato i primi 20 anni. Ma ospita anche, a pochi passi, una zona industriale. Per decenni ha ospitato numerose aziende, floride e attive, simbolo dell’industrializzazione di questo lembo d’Italia e portatrice di migliaia di posti di lavoro. Ma, complice la crisi economica mondiale e un mondo al cui passo non tutti son riusciti a stare, sono sempre più i capannoni vuoti, abbandonati, gli angoli che testimoniano un passato che appare lontano. Glorioso, ma pur sempre passato. E, negli ultimi anni, il dibattito e la cronaca sono stati animati più da progetti discussi e contrastati per i timori di inquinamento, per la salute e per la vicinanza con la Riserva Naturale. Gli industrialisti rassicurano, considerano infondati gli allarmi e accusano queste opposizioni di ottenere solo l’impoverimento del territorio. Ma gli ambientalisti e una parte della cittadinanza non si fidano, chiedono una svolta diversa dalla vecchia industria. In mezzo, quella che dovrebbe essere la “politica”, che dovrebbe fare scelte programmatiche e strategiche, prendere decisioni, costruire una visione del territorio. Ma in una terra per troppo tempo dominata dal “re delle raccomandazioni” (auto definizione del defunto ex ministro democristiano Remo Gaspari), dove clientele, favoritismi, ricerca esasperata di voti e consensi ovunque sia possibile arraffare, vige la regola del cerchiobottismo e dell’applausometro perpetuo. E quindi, pur di rimanere in sella e continuare a parcheggiarsi nelle stanze delle istituzioni, la “politica” vuole la Riserva e le industrie, i voti degli ambientalisti e dei padroni delle fabbriche, vuole il Parco Nazionale della Costa Teatina (o almeno fa finta, visto che è maggiorenne l’attesa dell’istituzione) e attirare investimenti dell’industria pesante.
Qui sorgeva la Svoa (Società Vastese Oli Alimentari). Chiuse i battenti nel 1993 quando dichiarò fallimento. Per decenni gli operai hanno lavorato in un fabbricato e con macchinari industriali dove l’asbesto (o amianto) era quasi l’unico materiale presente. Un anno e mezzo fa ho avuto la possibilità il primo incontro con Franco Cucinieri, ex lavoratore della fabbrica e oggi tecnico ENEA e referente dell’Osservatore Nazionale Amianto che assiste tutti i lavoratori coinvolti nella vertenza, fu l’occasione per iniziare la ricostruzione di tutta la vicenda. Iniziata nel 2001 quando lo stesso Cucinieri scoprì la morte di un suo ex collega, Michele Acquarola. Colpito dal mesotelioma, Acquarola aveva subito vari interventi di asportazione di parti del polmone. Chiese il riconoscimento della “malattia professionale” ma non riuscì ad andare oltre l’invalidità civile. Riconoscimento che avevano ottenuto altri due ex operai. “La vedova Acquarola – racconta Cucinieri – mi autorizzò ad accedere al certificato necroscopico di Michele. Nel frattempo ci fu un altro decesso, contattai la famiglia e ottennì anche in questo caso di poter accedere al certificato necroscopico”.
L’anno dopo nacque il Coordinamento Esposti Amianto. Da un esposto in Procura presentato dal Coordinamento partono le indagini a carico di tre ex dirigenti dello stabilimento. L’attenzione degli inquirenti si concentra sulla morte di due ex operai della SVOA. Il procedimento è stato chiuso nel 2009 per “intervenuta prescrizione”.
La famiglia Acquarola nel 2006 decise di ricorrere anche al Tribunale del Lavoro. Già l’anno successivo il giudice del lavoro riconosce la “malattia professionale” (sentenza confermata anche dalla Corte d’Appello aquilana), obbligando l’INAIL a riconoscere alla vedova la rendita prevista dalla legge per i familiari di operai morti per asbesto.
E’ il 2004 quando la partita giudiziaria si apre anche nei confronti dell’INPS per il riconoscimento della pensione relativa a tutti gli ex lavoratori della SVOA. Il Tribunale di Vasto emette una prima sentenza favorevole ai lavoratori nel 2008, confermata l’anno dopo dalla Corte di Appello. L’INPS inizia ad applicare la sentenza ma, contestualmente, promuove ricorso in Cassazione. E il 14 Agosto 2012, con la sentenza n. 14492 la Corte ribalta le precedenti sentenze e accoglie il ricorso dell’istituto previdenziale. Motivazione: “erroneamente la Corte territoriale non avrebbe considerato, ai fini del riconoscimento del beneficio pensionistico in questione, la soglia espositiva minima pari a 0,1 fibre per centimetro cubo, valore già previsto dal Decreto Legislativo n. 277 del 1991, articolo 24 e poi solo modificato dal Decreto Legge n. 269 del 2003, articolo 47 convertito con modifiche nella Legge n. 326 del 2004”. Nel caso dell’ex SVOA non sarebbe stato documentato in maniera qualificata il superamento di questa soglia. E, scrivono sempre i giudici, “neanche la certificazione INAIL costituisce prova esclusiva dell’esposizione qualificata”. Viene così cancellato il riconoscimento di alcuni diritti previdenziali e sanitari: la legge prevede anche una “sorveglianza sanitaria” agli ex lavoratori con patologie asbesto-correlate. E l’Istituto previdenziale ha chiesto la restituzione di quanto già erogato. Gli ex lavoratori rischiano di dover restituire somme tra i 20 e gli 80 mila euro. Cesare Damiano, membro della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati ha definito la vicenda di “una vera e propria ferocia burocratica”. A maggio 2017 il senatore del Movimento 5 Stelle ha presentato un’interrogazione parlamentare per chiedere l’intervento del Ministero a favore dei lavoratori. Il 3 agosto dello stesso anno la Commissione Lavoro della Camera ha approvato una risoluzione per impegnare il Governo a verificare la possibilità legale di esentare gli ex lavoratori dal restituire quanto già percepito.
“In passato – sottolinea Franco Cucinieri – la Cassazione non aveva fatto riferimento a determinate soglie ma soltanto alla elevata probabilità di esposizione. Un orientamento confermato anche successivamente. Infatti per 4 lavoratori, che si sono rivolti ai tribunali successivamente alla sentenza della Cassazione, il riconoscimento c’è stato e ormai è definitivo”. Il riferimento alle soglie rende più che perplesso Cucinieri, chimico professionale. L’amianto, ci ribadisce, ha un indice di volatilità più unico che raro, altissimo, e quindi non dovrebbe essere possibile fare riferimento a determinate soglie. Tramite il sangue umano può raggiungere qualsiasi organo. In più attività come quelle della Svoa rientravano in un particolare codice Istat. Previsto lì dove c’è presenza di componentistica in amianto. La legislazione, addirittura, per le attività che ricadono in questo codice prevedeva il pagamento di un contributo supplementare all’INAIL. Un contributo che, riferisce sempre Cucinieri, la Svoa non avrebbe mai versato.
La situazione nei capannoni aziendali della Svoa di Vasto
La Svoa lavorava raffinando e commercializzando oli vegetali per uso alimentare. Inizialmente doveva produrre 25.000 chilogrammi al giorno tra olio raffinato e sottoproduzione, successivamente la capacità fu ampliata a 110.000 chilogrammi al giorno. I lavoratori erano in continuo e costante contatto diretto con l’asbesto. I capannoni erano ricoperti di lastre di amianto. E nell’impiantistica l’amianto era utilizzato in maniera massiccia infatti, non solo tutti i capannoni dell’azienda erano ricoperti di lastre di amianto, ma anche tutta l’impiantistica prevedeva un uso massiccio di amianto: guarnizioni, giunti accoppiati, scaricatori di condensa e gli strumenti per la lavorazione degli oli erano composti da una considerevole parte di amianto. Persino i guanti protettivi forniti per proteggersi dalle ustioni erano in amianto. La situazione era aggravata – testimonia Cucinieri nella nostra intervista – dalle correnti che rimuovevano continuamente le polveri e le fibre di amianto disperdendole nell’aria. E all’esterno del sito era presente una discarica dei materiali di risulta contenenti amianto.
L’azienda era divisa in sei capannoni, a cui si aggiungevano anche la centrale termica, il “magazzino ricambi” e l’officina meccanica. Nel magazzino “l’infiltrazione degli scarichi provenienti dai camini delle caldaie ricadevano sulla copertura in eternit del magazzino causando dispersioni all’interno. C’erano giorni in cui rimanere nel locale era impossibile”. Nell’officina meccanica c’era “l’abitudine alla pulizia dei tavoli da lavoro e degli strumenti con aria compressa”. Due o tre volte l’anno nella centrale termica avveniva la manutenzione dell’impianto e della strumentazione “rimanendo all’interno delle caldaie per turni interi, rimuovendo e riapplicando gli sportelli in amianto con le sostituzioni dei cordoni in amianto. Oltre a sostituire tutte le guarnizioni di amiantite” (composta da gomma e amianto e che era venduto anche con il nome di “sirite”). Materiali composti anche di 10 o 15 lastre a cui si aggiungevano cordoni di 80 o 100 metri (tutto composto da amianto) e una quantità incalcolabile di varie guarnizioni.
All’interno del Capannone 2 (2000 metri quadrati dove si trovavano tutti gli impianti di raffinazione) l’esposizione era “peggiorata dalla presenza di due ventilatori con le pale all’ultimo pianto che aumentavano la circolazione delle polveri”. Le lavorazioni sulle guarnizioni provocavano dispersione delle fibre di amianto anche negli altri reparti.
E’ lapidaria la risposta di Franco Cucinieri alla domanda se i lavoratori avevano una qualche conoscenza dei rischi per l’esposizione all’amianto. “Nel 1975 gli unici rischi conosciuti erano chimici (come l’uso di soda caustica) o legati agli infortuni. Cominciammo a capire solo verso la fine degli Anni Ottanta dopo il riconoscimento per esposizione ad amianto ad un lavoratore della ICIC di Ancona. Azienda, con cui la Svoa condivideva proprietà e lavorazione, che aveva iniziato il riconoscimento addirittura tramite il Ministero del Lavoro. Lo scoprimmo quando questo lavoratore venne in trasferta da noi. Provammo anche noi a chiedere lo stesso percorso ma non ci riuscimmo. La Icic aveva anche pagato il contributo supplementare all’INAIL per l’amianto. All’incirca nello stesso periodo un lavoratore di Taranto, licenziatosi da un’azienda simile alla nostra in Puglia, fu assunto alla Svoa. Dopo il suo arrivo fu contattato da un patronato tarantino che gli comunicò il riconoscimento per l’esposizione all’amianto”.
Durante l’incontro avuto Franco Cucinieri sottolinea varie volte che quanto sta testimoniando “è stato documentato e presentato anche alla Procura e a tutti gli enti possibili”. Alla Procura di Vasto e all’INPS è stato depositato un fascicolo dettagliato con tutte le diagnosi ospedaliere di asbestosi. Durante il processo penale i figli di un lavoratore testimoniarono che la sera, al ritorno a casa, a volte il padre non riusciva neanche a mangiare per i fortissimi attacchi di tosse. Erano molti i lavoratori con forti problemi respiratori, anche mentre lavoravano, ma “non venivano mai correlati all’amianto. Si pensavano ad alcuni composti chimici al massimo” considerando anche l’uso di “terre decoloranti” e “farine fossili” (contenute in sacchi da 25 chilogrammi) che “potevano procurare polveri insalubri che si depositavano sui pavimenti. La cui pulizia avveniva con scope che rimuovevano le polveri dal pavimento ma potevano disperderle ulteriormente”.
Bandito in Italia nel 1992 ma pericolosità accertata dal 1930
L’Osservatorio Nazionale Amianto nel giugno scorso ha reso noto che, solo nel 2017, le malattie legate all’amianto hanno ucciso 6.000 persone mentre decine di migliaia sono state le persone ammalatesi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, basandosi sulle statistiche relative a mesotelioma, tumore polmonare e asbestosi, ha calcolato i morti in 104.000. Secondo molti studi scientifici il maggior numero di morti ci saranno tra il 2020 e il 2025. Tra i primi Stati a dimostrare la pericolosità dell’amianto per la salute umana fu l’Inghilterra nel 1930. Nel 1943 la Germania attestò il cancro al polmone e il mesotelioma come conseguenza dell’inalazione delle fibre, riconoscendo anche risarcimenti per i lavoratori colpiti. Così come accadde in Italia dopo la legge 257. Una legge giunta al termine di un percorso che ha attraversato larga parte del Novecento. Infatti, per la prima volta in Italia una sentenza del Tribunale di Torino dichiarò nocive per la salute le lavorazioni dell’amianto già nel 1906. Una sentenza confermata l’anno dopo dalla Corte d’Appello. Nel 1941 intervenne la Corte di Cassazione, confermando precedenti sentenze di condanna a risarcire i danni subiti da vittime dell’amianto. Due anni dopo la legge 455 indennizzò per la prima volta l’asbestosi come “malattia professionale”. Notevole importanza a livello internazionale ebbe la “Conferenza Internazionale sugli effetti biologici dell’asbesto” che si tenne nel 1964 presso la New York Academy of Sciences. La Conferenza giunse alla conclusione che si doveva evitare qualsiasi esposizione all’amianto, cancerogeno anche a basse dosi.
L’amianto nelle aule di “giustizia”
La vicenda dell’ex Svoa di Vasto è solo una delle tante approdate nelle aule di tribunale. La più nota è probabilmente Casale Monferrato. Nel novembre 2013 la Procura di Ivrea aprì l’inchiesta su venti operai morti che avevano lavorato – tra la fine degli Anni Settanta e l’inizio degli Anni Novanta – al locale stabilimento della Olivetti. Operai, evidenziò la Procura, che avevano lavorato in reparti contaminati da fibre di amianto e si erano dopo anni ammalati di mesotelioma pleurico, un raro tumore maligno riconducibile ad una prolungata esposizione all’amianto. Ad aprile dell’anno scorso, dopo le condanne in primo grado, la Corte d’Appello di Torino ha assolto tutti gli imputati (tra cui i più noti Carlo De Benedetti e Corrado Passera) perché “il fatto non sussiste”. Secondo i giudici c’erano “insormontabili carenze probatorie laddove si è cercato, da un lato, di dimostrare la sussistenza di esposizioni al fattore di rischio causalmente rilevanti nei periodi in cui si assume che ciascun imputato abbia ricoperto una posizione di garanzia; dall’altro, di applicare alla causalità individuale le acquisizioni epidemiologiche relative all’eziologia delle malattie tumorali asbesto-correlate”. Casale Monferrato ha ospitato lo stabilimento Eternit più grande d’Europa, il 28 aprile dell’anno scorso (in occasione della Giornata Mondiale vittime dell’amianto) Giuliana Busto, presidente dell’Afeva (Associazione famigliari e vittime amianto) della città dichiarò “la media è sempre di un morto per mesotelioma alla settimana”. Nel novembre 2014 si è conclusa in Cassazione una lunga battaglia processuale che vedeva imputati i vertici della multinazionale. Il verdetto fu netto: intervenuta prescrizione e cancellazione di ogni condanna. Si legge nelle motivazioni che la prescrizione era intervenuta già prima del rinvio a giudizio e il verdetto, annullando le condanne, ha cancellato anche i risarcimenti ai familiari delle vittime.
Un esposto di Medicina Democratica del 2013 fece una pesante ricostruzione delle vicende della ex Materit lucana. Si legge nell’esposto che “10 operai degli 86 che ci lavoravano sono morti, 16 si sono ammalati e tutti gli altri vivono un’esistenza sospesa fra controlli medici e il sospetto di essere già condannati”. “L’ex Materit s.r.l., azienda del gruppo Fibronit con sede amministrativa a Casale Monferrato – scrive il rappresentante legale dell’associazione nell’esposto – è stata in attività dal 1973 al 1989, quando fu chiusa dal Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri proprio a causa della mancanza di una discarica autorizzata per lo smaltimento dei propri rifiuti. L’azienda fu posta in liquidazione e i lavoratori furono messi in cassa integrazione”. I racconti dei familiari di ex operai della Materit deceduti appaiono terribilmente simili a quelli che ci ha raccontato Cucinieri sulla ex Svoa. Giovanna Desimmeo è la vedova di ex operaio della Materit. “Mi ricordo di quando mio marito mi raccontava di aver mangiato il panino direttamente sul sacco pieno di amianto – ha raccontato al quotidiano La Nuova del Sud – Mi ricordo che quando tornava a casa, prendevo la sua tuta da lavoro e la infilavo in lavatrice insieme alle mie cose e a quelle delle mie figlie. Adesso lui non c’è più e, credimi, mi manca tutto perché lui era il perno della famiglia. Mi manca come l’ossigeno e adesso che ho scoperto di avere anch’io delle macchie ai polmoni e sto facendo i controlli da sola, mi manca ancora di più. Chiediamo la bonifica dell’area e se ci spetta anche qualcosa per noi”. Nel 2010 la vedova di un ex operaio deceduto ha rivelato all’Espresso “Mi sentivo stanca, pensavo fosse per quello che ho dovuto passare negli ultimi tempi. Invece ho fatto gli esami ed è venuto fuori che avevo un tumore al seno. Ma non ero preoccupata, so che si può guarire e ho fiducia nella scienza. Poi invece la Tac ha trovato metastasi ovunque e mi hanno detto che era inutile pure l’operazione”.