Moneta: credi di parlare di economia, invece parli di vita. La narrazione ufficiale descrive la moneta come un mezzo di scambio, ma è una rappresentazione un po’ desueta, dei tempi in cui eravamo tutti produttori. Facevi il contadino, coltivavi piselli, li vendevi al mercato e col ricavato ci compravi un cestino. Quel tempo non esiste più: oggi i produttori sono pochi e concentrati, alla moltitudine è riservato solo il ruolo di consumatori. E da mezzo di scambio la moneta si è trasformata in strumento di accesso: la chiave che permette di alzare la sbarra della cassiera al supermercato e fare passare di là tutto ciò che abbiamo buttato nel carrello della spesa. Così il nostro problema è diventato come procurarci quel passe partout capace di aprire lo scrigno di ogni nostro desiderio. Le vie possibili sono due, ciascuna per una funzione diversa. La prima, l’ottenimento di un salario per la spesa quotidiana. Perciò il posto di lavoro è diventato una questione di vita o di morte, non solo per i singoli, ma per il sistema stesso che si paralizza se non distribuisce abbastanza salari capaci di chiudere il cerchio fra produzione e vendita. Ma oltre a mantenere in vita la produzione in essere, la moneta ha anche il potere di promuoverne di nuova. Lo fa ogni volta che consente l’acquisto di beni d’investimento per l’avvio di nuove attività o il potenziamento di quelle esistenti. Non sempre però, chi desidera effettuare un investimento, ha il denaro sufficiente per farlo ed è costretto a trovarne. Nel nostro sistema l’unica porta a cui bussare sono le banche che nell’immaginario collettivo svolgono una funzione di intermediazione: raccolgono il denaro di chi lo ha risparmiato, ma non lo usa e lo cedono a chi vuole investire, ma non ha i soldi per farlo. Ancora una volta si tratta di uno stereotipo falso: le banche per lo più creano moneta dal niente. Usano i risparmi raccolti come base per moltiplicare di varie volte i prestiti che poi rilasciano. Non c’è da sorprendersi: la moneta è un’invenzione umana, non un bene che si trova in natura, per cui è comprensibile che chi l’ha posta a base dei propri affari si ingegni per moltiplicarla. La sorpresa, piuttosto, è che si sia accettato di affidare un servizio a così alta rilevanza collettiva a strutture organizzate per fare profitto. In fondo quando si parla di investimenti non c’è in gioco solo il profitto che ne ricaverà l’investitore, ma molti altri aspetti come la creazione di posti di lavoro, la produzione di nuova ricchezza, la valorizzazione di territori inattivi, la messa a punto di nuove tecnologie, tematiche che coinvolgono l’intera collettività.
Ancora più sorprendente è che si sia accettato di mettere la collettività stessa sotto dominio delle strutture private. Per avere chiaro di cosa parliamo va precisato che la funzione di uno stato, con tutte le sue articolazioni territoriali, non è solo quella di gestire servizi e sicurezza sociale attraverso il prelievo fiscale. Lo stato ha anche il compito di promuovere occupazione, servizi pubblici e tutela dei beni comuni. Quando ha un’alta disoccupazione e molti bisogni sociali e ambientali da risolvere ha il compito di forzare la situazione, addirittura il dovere di imprimere un’accelerazione al sistema per spingerlo ad utilizzare al meglio tutte le sue potenzialità umane e materiali al servizio del bene comune. Un ruolo che per essere svolto richiede anche la possibilità di creare nuova moneta, esattamente come è consentito alle banche private. Se questa possibilità gli viene preclusa, lo stato ha due sole vie di fronte a sé. La prima: limitarsi al ruolo di ragioniere che gestisce solo l’ordinaria amministrazione. Tanto gli entra attraverso il gettito fiscale, tanto spende. Una funzione minimale che pur potendo dare risultati diversi a seconda dell’orientamento politico, è comunque destinato a mantenere il paese in posizione di stallo. L’altra possibilità è quella di indebitarsi con le banche. Che però ha i suoi costi. A seconda delle circostanze, gli interessi possono diventare così onerosi da trasformarsi in una trappola. Ne sa qualcosa l’Italia degli anni ottanta del secolo scorso, quando i tassi di interesse raggiunsero picchi del 24%. Le somme da pagare diventarono così esorbitanti che l’Italia che non ne è più uscita. Nonostante l’austerità in atto dal 1992, tutti gli anni abbiamo continuato ad indebitarci, non per fare nuove spese a vantaggio dei cittadini, ma per pagare la parte di interessi che i risparmi non riuscivano a coprire. A conti fatti il nuovo debito contratto dall’Italia dal 1992 al 2017 per pagare gli interessi residui ammonta a 1300 miliardi di euro. E gli effetti si vedono: nonostante gli 800 miliardi di risparmi realizzati dal 1992 ad oggi, il nostro debito ha continuato a crescere fino all’astronomica cifra di 2300 miliardi. Questa storia non può durare in eterno. Non si può continuare all’infinito a farci mungere per arricchire banche, assicurazioni e altri investitori. Ormai tutti dicono che l’austerità va abbandonata, ma se non riduciamo la dipendenza dal mercato rimangono solo parole. Per questo, tutte le proposte che vanno in questa direzione vanno esaminate con grande attenzione. La Modern Monetary Theory propone di rompere questa dipendenza in maniera radicale sovvertendo non solo il rapporto fra stato e banche, ma addirittura la funzione del sistema fiscale. E se sono comprensibili perplessità e timori rispetto alla sua capacità di funzionare all’atto pratico, va però riconosciuto il valore dei principi su cui si fonda. Due in particolare: l’interesse collettivo è preminente su quello privato; la moneta va gestita come un bene comune al servizio di tutti anziché come merce per il lucro di pochi. Abbiamo un assoluto bisogno di trovare delle modalità per fare tornare gli stati a svolgere un ruolo di promozione sociale ed economica. Ma non potremo farlo finché non ci saremo scrollati di dosso il fardello del debito che abbiamo accumulato verso i privati e finché non ci doteremo di nuove regole per governare la moneta in un’ottica sociale. Solo adottando nuove idee guide potremo riuscire nell’una e nell’altra impresa.