Giornate intense a Milano per gli eventi sui migranti lungo la rotta balcanica. Si inizia mercoledì 15 maggio aprendo la mostra “Refugee journeys through the Balkan route: a crisis no more?” nel Cortile Farmacia dell’Università degli Studi di via Festa del Perdono. La sera di giovedì 16 oltre 200 persone l’avevano già visitata (arrivando a un totale di 300 venerdì pomeriggio), fermandosi a parlare con le ricercatrici inglesi autrici delle foto e della ricerca collegata all’esposizione, con gli studenti di Fuori Luogo e i volontari di Opet Bosna.  Molti lasciano commenti positivi e ringraziamenti per l’iniziativa sulle apposite cartoline. Si crea un ambiente caldo e informale, racchiuso tra lo splendido colonnato del chiostro e lo striscione Refugees Welcome appeso come una sorta di sipario a chiudere la successione di foto e di didascalie esplicative.

 

Immagini forti – strade e ferrovie prima percorse da migliaia di profughi e poi deserte per la chiusura dei confini e il muro eretto dall’Ungheria, alloggi precari nei campi in Grecia, spazi occupati e scritte di denuncia e solidarietà ad Atene e tanto altro – che confermano una situazione drammatica e in gran parte dimenticata dai media nostrani, al centro del progetto di ricerca e di lavoro sul campo IR_Aesthetics.

Nel pomeriggio di giovedì 16, mentre la mostra rimane aperta, si tiene nell’aula 22 di Scienze Politiche di via Conservatorio l’incontro “The game: il viaggio dei migranti lungo la rotta balcanica”. Aula piena, pubblico attento e interessato. L’introduzione di Sara Kharboui di Fuori Luogo entra subito nel vivo della questione ricordando l’enorme divario tra Nord e Sud del mondo e le vergognose disuguaglianze che spingono tanta gente a emigrare verso una “Fortezza Europa” che la respinge e non offre alcun canale di accesso legale. Una politica criminale e inutile, visto che anche militarizzando e chiudendo le frontiere un fenomeno globale come l’immigrazione non si fermerà.

Prosegue Michele Mondolfo di Opet Bosna spiegando che cos’è il Game che dà il titolo all’incontro. Non è un gioco, ma una sfida impari tra persone inermi – spesso famiglie con bambini – che tentano di attraversare i confini spostandosi da un paese all’altro e poliziotti armati, muri e filo spinato. Una sfida ripetuta più volte, con tentativi falliti e respingimenti, che parte dalla Grecia e arriva fino al confine tra Italia e Francia e si scontra con la violenza e la disumanità in particolare della polizia croata. Oltre ai tanti episodi di brutalità denunciati dalle organizzazioni che assistono i migranti, questi devono affrontare condizioni terribili di promiscuità e sovraffollamento nei campi che li “accolgono” e sono spesso costretti a cercare rifugio in case abbandonate, in un’attesa infinita e sfibrante del riconoscimento del loro stato. Una violenza psicologica terribile, che si aggiunge a quella fisica fatta di pestaggi e cellulari rotti o rubati.

Non si tratta solo di una gestione inumana e disastrosa dell’immigrazione, ma anche, più in generale, di una discriminazione sulla base del luogo di nascita: un giovane europeo può viaggiare liberamente e sfruttare possibilità e occasioni negate ai suoi coetanei di altri paesi.

Gemma Bird, ricercatrice dell’Università di Liverpool, illustra il progetto condotto con le colleghe soffermandosi in particolare sulla situazione delle isole greche, che conosce per esperienza diretta. Nel 2014 si restava in media tre giorni in uno dei campi di Samos, Lesbo e Chio, mentre ora l’attesa per conoscere il proprio destino può arrivare a due anni. Anche qui campi sovraffollati, violenze, code di ore per ottenere un pasto, servizi insufficienti e persone per cui la Grecia era solo un paese di transito, che si trovano invece bloccate all’infinito in una situazione di limbo e incertezza sul futuro. Come in Bosnia, anche in Grecia attivisti e Ong assistono i migranti fornendo servizi e aiuti di vario tipo (pasti, vestiario, corsi di lingue eccetera), ma la crisi umanitaria perdura. Ecco il frutto di una politica di esternalizzazione dei confini per cui campi profughi che dovevano essere transitori diventano permanenti. Nonostante le denunce, si è fatto poco o niente per cambiare la situazione.

Jelena Obradovic-Wochnik dell’Aston University aggiunge dati e informazioni sul percorso tortuoso e i costi (fino a 3-4.000 euro a persona) di chi percorre la rotta balcanica ed è costretto ad affidarsi ai trafficanti. Ogni volta che i migranti attraversano una frontiera devono pagare qualcuno e a volte diventano essi stessi trafficanti per pagarsi il viaggio. La recente proposta di espandere Frontex, prevedendo anche l’uso della forza nel controllo delle frontiere, è un indicatore preoccupante e un segno che solo una maggiore pressione politica può cambiare questa direzione disumana.

Le domande del pubblico permettono a Mirko Rozzi di Opet Bosna di parlare dell’esperienza accumulata in moltissimi viaggi nei campi profughi di Bihać e di Velika Kladuša, le due cittadine bosniache più vicine al confine con la Croazia e dei servizi offerti anche grazie alla solidarietà della gente del posto: pasti, docce, distribuzione di vestiti e purtroppo anche un posto di pronto soccorso per garantire le prime medicazioni ai migranti picchiati dalla polizia croata e rimandati indietro.

Sollecitata dalla domanda di una studentessa, anche Jelena Obradovic-Wochnik parla di solidarietà e auto-organizzazione citando gli spazi occupati in Grecia allestiti da attivisti, gente del posto e migranti stessi come alternativa ai campi. Alcuni hanno una buona reputazione, altri meno. Alcuni sono stati sgomberati, o rischiano lo sgombero, mentre altri vengono lasciati in pace, ma almeno là la gente può muoversi e non è soggetta alle condizioni terribili dei campi nelle isole.

Gemma Bird elenca le raccomandazioni frutto della ricerca sul campo. Spostamento dalle isole greche alla terraferma, più fondi per alloggi alternativi ai campi, procedure più veloci e trasparenti riguardo alla richiesta d’asilo, maggiore comunicazione con i movimenti di solidarietà con i migranti sono solo alcune delle proposte già presentate a politici e istituzioni di diversi paesi europei.

Michele Mondolfo aggiunge la necessità di combattere la disinformazione, l’odio e l’egoismo dilaganti e di dare un’altra immagine  – positiva – dell’immigrazione, ricordando il timore dell’”invasione” albanese di 25 anni fa, ora assorbita senza problemi e cita alcune notizie incoraggianti: la sentenza della Corte UE secondo cui se la sua vita è a rischio nel paese d’origine un rifugiato non può essere espulso dall’Italia, o l’archiviazione dell’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nei confronti di Open Arms. Lancia quindi un appello a chiunque voglia appoggiare le attività di Opet Bosna, partecipando ai viaggi o trovando altre forme di collaborazione.

Un ultimo intervento di uno studente di Fuori Luogo ricorda il decreto sicurezza bis, con la sua chiara volontà di colpire non solo le Ong che salvano vite in mare, ma anche qualsiasi forma di dissenso e la prevista apertura di un centro per il rimpatrio in via Corelli. La criminalizzazione della solidarietà non si ferma, dunque non può farlo nemmeno chi si oppone a queste scelte disumane.

Foto di Davide Schmid, Fuori Luogo, Thomas Schmid e Michele Mondolfo