L’ultima mossa, in ordine di tempo, e di stampo diplomatico, é stata di Fayez Al-Serraj, con il suo breve viaggio in Italia, Germania e Francia nei giorni scorsi. Gli incontri con Giuseppe Conte, Angela Merkel e Emmanuel Macron, agli occhi del Presidente del Consiglio presidenziale del governo di unione nazionale, basato a Tripoli, avrebbero dovuto dissipare, o per lo meno rendere meno evidenti, le nuove alleanze che si stanno profilando dopo l’intervento militare dell’uomo forte di Tobruk, Khalifa Haftar, che né Italia, né Germania, né Francia hanno condannato con forza.
Fayez Al-Serraj è rientrato in Libia, dal suo “pellegrinaggio” europeo, con generiche dichiarazioni di solidarietà, ma con intatto il dubbio di avere interlocutori europei sempre meno affidabili, per lui. Come nel gioco degli scacchi in Libia Fayez Al-Serraj, l’architetto, capo di un governo che si definisce, eufemisticamente, di unità nazionale, e Khalifa Haftar, il generale che vuole farsi presidente, sono stati designati (o auto nominati) ad essere il “bianco” ed il “nero”, cercando di darsi reciproco scacco matto, con i loro manipoli di alfieri, cavalli e pedoni, lasciando però a re, che si muovono su una scacchiera più ampia e lontana, il compito di orientarne le mosse. Ad oggi la situazione è di stallo, con scaramucce, combattimenti più pesanti e attacchi reciproci che non dipanano una matassa complessa ma provocano dolore e disagi ad una popolazione (circa 6,5 milioni di persone), spesso dimenticata, che, come in tutti i conflitti, subisce senza avere voce in capitolo.
Diversi sono le origini e i percorsi dei due contendenti, Fayez Al-Serraji e Khalifa Haftar. Il primo è un architetto e uomo d’affari nato a Tripoli 59 anni fa, entrato in politica solo dopo la rivolta del 2011 che portò alla caduta di Muammar Gheddafi e sospinto al vertice del Paese il 17 dicembre 2015 con un accordo, sotto l’egida dell’ONU, tra le più importanti tribù libiche di Tobruk (Cirenaica) e Tripoli (Tripolitania), con l’obiettivo, rapidamente fallito, di porre fine alla guerra civile che continuava anche dopo la fine del regime gheddafiano. E’ considerato un abile negoziatore e disposto ad ogni compromesso. Il secondo, nato in Cirenaica 75 anni fa, fu a fianco di Gheddafi durante il golpe che rovesciò re Idris nel 1969, poi imprigionato dal Colonnello nel 1987 (per tre anni) dopo la fallimentare campagna in Ciad, meditando vendetta per oltre vent’anni, vissuti in Virginia (USA), poco distante dal quartier generale della CIA; tornato in Libia nel 2011 nel maggio del 2014 ha lanciato da Bengasi l’Operazione Dignità contro le milizie islamiste. E’ ritenuto un abile stratega, con un concetto di lealtà molto labile.
Ambedue hanno i loro padrini e protettori, che talvolta giocano da una parte e poi dall’altra o, contemporaneamente, in entrambe, per ragioni di opportunità politica e/o economica, o semplicemente egemonica. Dalla parte di Fayez Al-Serraji: Qatar, Turchia, UE ( con distinguo). Dalla parte di Khalifa Haftar: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Russia. Altalenanti : USA (ora con Haftar), Italia (prima con Fayez Al-Serraji, ora in fase neutra), Francia (ora con Haftar). Nel bel mezzo l’ONU che, come sopra scritto, ha riconosciuto il Governo di Fayez Al-Serraji e che spinge per soluzioni non militari, avendo inviato rappresentanti speciali diplomatici, Bernardino Léon (2014) e Ghassan Salamé (2017), promuovendo, o sostenendo, vari incontri fra i contendenti, fin dal dicembre 2015, con l’accordo di Skhirat (Marocco), nel tentativo inutile, per ora, di ricomporre le divisioni.
L’ultima conferenza a Palermo, lo scorso 13 novembre, voluta dal governo italiano per controbattere quella di Parigi organizzata dal presidente Macron, del 25 luglio 2018 , alla quale l’Italia non era stata invitata. In entrambi i casi strette di mano, televisive, fra Fayez Al-Serraji e Khalifa Haftar, poi il ritorno a casa, “nemici come prima”. I fattori in gioco, interni ed esterni, sono molteplici.
Sul fronte esterno, tanto per citarne alcuni, la Francia di Macron ha l’interesse a sostenere un nuovo corso in Libia per destabilizzare lo storico predominio italiano sul petrolio libico, l’America di Trump invia all’Italia segnali di forte irritazione per aver firmato accordi con la Cina riguardanti la nuova “ Via della seta”, e l’Egitto ha l’interesse di spedire messaggi, più o meno subliminali, all’Algeria per scoraggiare cambiamenti radicali voluti dalla società civile a danno delle forze militari. Sul fronte interno ci sono fattori strutturali come gli interessi delle tribù e delle milizie a loro legate, fra i quali la gestione degli oltre 200 mila migranti presenti sul territorio libico, senza contare l’arrivo massiccio ora in gruppi, ora in ordine sparso, di terroristi legati all’Isis, in cerca di nuovi territori dopo le disfatte in Irak e Siria.
Utile a far comprendere l’ambiente, teatro di scontri, interessi e intrighi nazionali e internazionali, può essere un breve resoconto di un mio viaggio in Libia, nella tarda primavera del 1996, in pieno embargo ONU. Un primo pomeriggio passato nella camera di un albergo a Tripoli con l’unica compagnia, si fa per dire, di un vecchio televisore in bianco e nero, di provenienza sovietica. Un solo canale, musiche e canti patriottici, immagini del Leader della Gran Giamahiria (Repubblica) Araba Libica Popolare Socialista, Muammar Gheddafi, in ogni posa, in ogni dove, in ogni momento della giornata. Gheddafi non ebbe mai un ruolo istituzionale e diede vita a una Repubblica senza Stato, quindi senza una Costituzione, creando un Comitato dei leaders tribali, per garantire il loro coinvolgimento nei processi decisionali, e un Comitato d’onore per punizioni collettive nel caso un membro della tribu’ avesse tradito il regime. Improvvisamente uno speaker annunciò un evento importante: Gheddafi avrebbe parlato ai capi delle centoquaranta tribù riunite sul suo suolo natio di Sirte, e, come ogni sei mesi, nominato un Presidente della Repubblica, in rotazione fra le tribù stesse, come sempre. Furono due ore di pura “commedia dell’arte” in cui il Capo comico, Gheddafi, interpretò magistralmente il suo ruolo di affabulatore, reprimendo, accusando e blandendo una platea asservita al proprio ruolo di comparsa.
Le tre aree geografiche che formano la Libia, Tripolitania, Cirenaica e il deserto del Fezzan, sono entità autonome nelle quali si intersecano le 140 tribù, delle quali una trentina quelle con più peso politico. Ognuna di queste ha alla sua testa un leader, che non avendo mai vissuto in una democrazia come noi occidentali la concepiamo, si chiude nella propria autonomia ed autorità, che sono state, e saranno, prioritarie rispetto ad un concetto di unità nazionale. Non ho sicuramente nostalgia di quel regime sanguinario, ma certo é che l’Occidente non ha mai voluto o saputo capire i meccanismi che regolano gli equilibri nel mondo arabo, in generale; e della Libia, in particolare. Il “bianco” ed il ”nero” in Libia hanno molte sfumature cromatiche.
Ferruccio Bellicini