La rincorsa è stata lunga e il salto carpiato, ma quando giusto nella pausa del fine settimana s’è tuffata diritta nella campagna elettorale argentina aperta in anticipo dalla concitata crisi economico-finanziaria, l’ex presidenta Cristina Fernandez de Kirchner ha catalizzato l’attenzione del paese intero e di mezzo continente americano. La sorpresa accesa dai 12 minuti dell’annuncio-video sorridente e calibratissimo con cui ha invaso le reti sociali, è stata dilatata dalla scelta di presentarsi candidata a semplice vice di Alberto Fernandez, l’accorto navigatore dell’arcipelago peronista già premier del marito scomparso, Nestor, nella sua presidenza (2003-2007). In questa nuova sfida per la Casa Rosada, Cristina porta una più che notevole dote di voti, valutata oggi da autorevoli sondaggi attorno a un 27-30 per cento degli aventi diritto.
Queste percentuali potrebbero scavalcare d’impeto quelle attribuite all’attuale Presidente, il neo-liberista Mauricio Macri, il cui prestigio appare in caduta anche tra i suoi stessi alleati di governo. E con ogni probabilità risultare sufficienti a superare con successo le primarie del prossimo 11 agosto. Restando tuttavia ben lontane da quel 45 per cento richiesto per una vittoria al primo turno elettorale a fine ottobre. Cristina e Alberto Fernandez (nessuna parentela, solo una coincidenza: il loro è un cognome molto diffuso nel mondo ispanico) ne sono ovviamente consapevoli. Ed è per colmare questa differenza che entrambi invocano fin d’ora alleanze elettorali allargate, per giungere poi a un’ancor più ampia coalizione di governo. Tutt’insieme, virtuosamente?
I due Fernandez affermano che l’Argentina rischia un nuovo collasso. E’ indispensabile una grande alleanza patriottica. In effetti l’osservazione empirica indica e i dati confermano che sono cresciuti disoccupati, lavoro nero e povertà, il paese è in acuta sofferenza. L’apertura pur limitata alle importazioni e gli esorbitanti interessi sui crediti in conseguenza dell’inflazione alle stelle, hanno contratto i consumi e spinto con le spalle al muro piccole e medie imprese: indebitarsi o chiudere, e sempre più spesso la prima scelta non evita la seconda. Il modello prescelto da Macri punta soprattutto sugli investimenti esteri nel terziario, per i quali aveva messo in moto un rilevante ammodernamento delle infrastrutture; e sull’export agricolo, storicamente essenziale per la bilancia commerciale e l’approvvigionamento di valuta pregiata. Un progetto in astratto non irrazionale, di fatto già fallito catastroficamente con i governi di Carlos Menem (1989-‘99).
La congiuntura non l’ha aiutato. La capacità di previsione dei tecnici del governo, neppure. Ai tassi d’interesse sul dollaro già in risalita con Obama, si è aggiunta l’enfasi autarchica di Trump. Con la riduzione delle imposte per le grandi imprese resa possibile dalla dimensione della sua economia e dall’espansione del debito, America First ha intercettato le preferenze di imprese e singoli risparmiatori. Perfino un ministro di Macri, qualche mese addietro, ha ammesso in TV di aver lasciato i suoi dollari (circa 80 milioni…) in una banca degli Stati Uniti ed è rimasto sereno al suo posto. Trascurando anche il parere di numerosi specialisti secondo i quali l’immagine del mercato di capitali argentino risente ancora del default del 2001 e del tutto vano è puntare su servizi e agricoltura per creare posti di lavoro che sostituiscano quelli perduti dall’industria.
Subito dopo l’inizio della sua presidenza, all’inizio del 2016, Macri aveva fatto ricorso a un rilevante indebitamento in dollari, nella dichiarata convinzione di riportare così in piena legittimità l’Argentina nel grande circuito bancario. La controversa operazione era stata criticata dal premio Nobel Joseph Stiglitz sul New York Times dell’aprile 2016. L’economista americano la giudicava un pessimo precedente per l’equilibrio delle transazioni finanziarie internazionali. Stretta da spregiudicate manovre legali e dall’iniqua sentenza di un giudice di New York, il governo di Buenos Aires aveva ceduto alle pressioni di noti fondi speculativi. Uno dei quali co-diretto da un importante finanziatore del partito repubblicano. Per avere un’idea: questo fondo aveva comprato bonus argentini a prezzo di fallimento per 177 milioni di dollari, incassandone dopo pochi anni 2mila e 28 milioni, con un profitto del mille e 180 per cento!
Era prevalsa l’illusoria speranza di poter avviare una ripresa. Il ciclo degli anni buoni del commercio internazionale che avevano premiato tutti i paesi esportatori di materie prime sono invece finiti. La crisi finanziaria esplosa a Wall Street nel 2008 li ha sepolti come un macigno non ancora rimosso. La spirale indebitamento-inflazione-indebitamento è diventata una china scivolosa, che preoccupa anche gli stessi creditori. La settimana scorsa (14.05) il Financial Times ha espresso da Londra i timori del Fondo Monetario Internazionale (FMI) per il suo coinvolgimento nei conti pubblici argentini, in cui ha riversato crediti per 56 miliardi di dollari, i più alti mai concessi. Il prestigio del Fondo e quello della Signora Christine Lagarde che lo presiede non potrebbero resistere a uno scossone elettorale, scrivono Colby Smith e Benedict Mander.
Fernandez e Fernandez, che a uditi inclini al folclore possono suonare come un duo di tango, voce cantante e bandoneon, e alcuni avversari hanno immediatamente ribattezzato il gatto e la volpe, sono fuor d’ogni dubbio politici duri e realisti. Ne sono riprova i loro stessi rapporti personali. Intensi e profondi per lunghissimo tempo, di colpo deflagrati nella clamorosa rottura seguita alla morte di Nestor Kirchner e coincidenti con la prima presidenza di Cristina. Il decisionismo di lei, spesso anche ruvido, risultò insopportabile al meditato pragmatismo di lui. Non si sono rivolti la parola per dieci anni. Nel corso dei quali lei ha governato, prima di cadere nella raffica di inchieste giudiziarie d’ogni tipo, corruzione, complicità con il terrorismo iraniano, speculazioni finanziarie, che l’hanno spinta sulla soglia di processi non ancora giunti a dibattimento, dopo tre anni e mezzo; lui non ha mai smesso di scandagliare nelle agitate acque della politica.
Finché, come in un periodico, inevitabile ritorno, i sinistri scricchiolii della crisi e le inquietudini personali hanno spinto lo spirito indomito dell’amata-odiata Cristina e quello calcolatore-avventuroso di Alberto a reincontrarsi nel crogiuolo della politica attiva, in cui si fondono interessi particolari e generali, opposte verità, ideali e miserie. A questo punto, molte restano le incognite. Il tempo ha però cominciato a correre. In 600 pagine d’un libro recentissimo che alterna una documentata requisitoria contro il governo Macri a qualche compiacimento sentimentale, l’ex presidenta lascia intendere che l’incerta salute della figlia e le personali vicende giudiziarie la spingono a patteggiare con se stessa, se non con gli avversari. Una condizione che l’ha dissuasa dall’aspirare a una terza presidenza. Non certo ad abbandonare il gioco del potere.