Di Justin Podur (1)
Fonte: Independent Media Institute
Questo articolo è stato prodotto da Globetrotter, un progetto dell’Independent Media Institute.
A chi possiamo credere? I partiti politici e le organizzazioni di parte ora presentano non solo le proprie opinioni ma, come dice la vecchia battuta, anche i loro fatti. I palestinesi vengono uccisi presso la recinzione di Gaza perché tentano di invadere Israele, come sostiene l’esercito israeliano che li uccide, o stanno cercando di protestare contro la reclusione nella prigione a cielo aperto in cui stanno lentamente morendo di fame, come sostengono i loro portavoce? Il presidente venezuelano Maduro è un dittatore, come dice Trump, o ha vinto una elezione equa, come afferma il consiglio elettorale del Paese?
Il cittadino si trova di fronte a versioni diametralmente opposte della verità, su questioni di vita e di morte. Un istinto naturale spinge a cercare voci neutrali, non partigiane, a cercare arbitri imparziali che non sono a favore di una parte o dell’altra, ma cercano solo di attenersi a princìpi di alto livello. E quale principio è più alto dei diritti umani, il principio secondo cui tutti abbiamo (gli stessi) diritti semplicemente a causa della nostra comune umanità? Nella nebbia creata da politicanti egoisti, da gruppi armati che usano l’inganno come arma di guerra e da giornalisti in cerca di far carriera servendo i potenti, certamente le organizzazioni dedicate ai diritti umani – come Amnesty International e Human Rights Watch – possono essere fari di luce.
Purtroppo, non lo sono. La stessa autorevolezza che le organizzazioni per i diritti umani possiedono, la loro parvenza di principio e neutralità, è diventata una merce troppo preziosa perché i potenti la possano ignorare. Il risultato? Le organizzazioni per i diritti umani hanno sacrificato la loro credibilità e sono diventate una parte sofisticata della macchina per la politica estera degli USA o, – per dirla in modo più esplicito -, una parte dell’impero degli USA. Le cose sono andate così per molto più tempo di quanto si renda conto la “gente di coscienza”, per usare una parola cara al mondo dei diritti umani.
Nel suo libro del 2010 Ideal Illusions: How the U.S. Government Co-opted Human Rights (Illusioni idealistiche: Come il governo degli USA ha cooptato i diritti umani), l’autore James Peck descrive come, durante la Guerra fredda, i funzionari statunitensi cercavano uno slogan ideologico che potesse competere con gli appelli all’uguaglianza e all’anti-imperialismo che i rivoluzionari comunisti offrivano agli oppressi del mondo. L’anti-comunismo funzionava abbastanza bene a casa, era uno slogan negativo – contro il comunismo-, certo, ma per che cosa si battevano gli Stati Uniti? Il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente americano Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski, in una lettera a Carter sostenne che una fondazione per i diritti umani semi-governativa, con base negli USA, avrebbe potuto promuovere “una costituente mondiale per i diritti umani” restando “separata dalla dipendenza diretta” dagli USA, fornendo una voce “indipendente dal governo degli USA e, in alcuni casi, più credibile”. Un’ampia definizione dei diritti umani, sosteneva Brzezinski, “conserverebbe per noi la desiderabile identificazione con una causa umana per cui i tempi sono maturi”.
Human Rights Watch (chiamata Helsinki Watch alla sua fondazione) è nata per servire esattamente a questo scopo. Peck scrive che negli anni ’70 “Helsinki Watch lavorava a stretto contatto con i dissidenti nell’URSS e nell’Europa orientale e si trovava a emulare pratiche governative statunitensi di vecchia data”.
Amnesty International ha intrapreso un percorso più indipendente, concentrandosi su pratiche specifiche come la tortura, i prigionieri politici e il genocidio. In tal modo, come ha sostenuto uno dei fondatori, Amnesty faceva appello a coloro “che sono stanchi del pensiero polarizzato che deriva dalla Guerra Fredda … ma che sono profondamente preoccupati per coloro che stanno soffrendo semplicemente perché stanno soffrendo”. Però, nonostante questo iniziale tentativo di cercare e di appellarsi ai valori universali, e di evitare questioni controverse e partigiane, Amnesty si trovò rapidamente nel bel mezzo di una simile controversia: secondo la definizione di Amnesty, i prigionieri di coscienza non potevano essere sostenitori della violenza; Nelson Mandela non aveva rinunciato alla violenza; quindi Mandela non era un prigioniero di coscienza. In questo modo, Amnesty finì dalla parte sbagliata di una delle lotte più storiche di quel tempo.
In pratica, queste organizzazioni per i diritti umani si trovano costantemente dalla parte dell’impero, nonostante le contraddizioni e le contorsioni che tale posizione richiede.
Amnesty non è riuscita a riconoscere Chelsea Manning come “prigioniera di coscienza”. Nel 2013 rappresentanti di Amnesty dissero al giornalista Joe Emersberger che la loro indagine era in corso, che non erano sicuri se Manning avesse “rilasciato informazioni in modo responsabile”, non era accertato che il governo la stesse punendo “per impedire la conoscenza pubblica delle violazioni dei diritti umani”. Al contrario, il leader venezuelano dell’opposizione Leopoldo Lopez, che ha guidato numerosi tentativi violenti di colpo di stato contro il governo, è stato rapidamente riconosciuto “prigioniero di coscienza” da Amnesty. I colpi di stato violenti di Lopez sono stati meno violenti del rifiuto di Mandela a condannare la violenza anti-apartheid? I suoi tentativi di colpo di stato sono stati condotti in modo più “responsabile” rispetto alla denuncia di Manning?
Nel 2006, Jonathan Cook evidenziò che il ricercatore di Human Rights Watch Peter Bouckaert aveva dichiarato al New York Times che “è perfettamente chiaro che Hezbollah attacca direttamente ai civili e che il loro obiettivo è uccidere civili israeliani. Noi non accusiamo l’esercito israeliano di cercare deliberatamente di uccidere civili… quindi c’è una differenza di intenti tra le due parti”. Cook ha sottolineato che “proprio come Bouckaert pare certo di poter interpretare le intenzioni di Israele in quella guerra come essenzialmente benevole, è ugualmente convinto di conoscere le intenzioni di Hezbollah come malevole”. Qualsiasi cosa suggerisca l’evidenza – in una guerra in cui Israele ha ucciso in netta prevalenza civili libanesi e lo sta ancora facendo, mentre Hezbollah ha ucciso in netta prevalenza soldati israeliani – Bouckaert la sa più lunga”.
Qui abbiamo un sorprendente processo in due fasi: in primo luogo, l’organizzazione per i diritti umani suggerisce che gli effetti (morti civili sproporzionati) sono meno importanti delle intenzioni. In secondo luogo, l’organizzazione per i diritti umani assegna intento cattivo al lato più debole e intento buono al più forte, sostenendo in sostanza la capacità di leggere le menti. L’enfasi è sull’intenzione (presumibilmente scoperta telepaticamente), che per gli USA o i suoi alleati è sempre buona mentre per i suoi nemici è sempre cattiva. L’enfasi non tiene conto della sproporzione, dal momento che le percentuali di morti delle guerre statunitensi sono mostruosamente sproporzionate (cioè, gli USA e i loro alleati uccidono molti più civili dei loro nemici).
Tale argomento, prosegue Cook, “legittima l’uso della forza militare da parte del partito più forte, coprendo di assurdo il diritto internazionale e gli standard sui diritti umani che HRW dovrebbe sostenere”.
Inoltre legittima la parte più forte a concentrarsi sui singoli casi ed evitare di discutere sui numeri. Quando le organizzazioni per i diritti umani sostengono che ogni singolo caso di tortura o violazione dei diritti umani è un crimine, hanno completamente ragione. Ma omettendo di notare che una parte sta uccidendo 10, 100, o 1.000 volte più dell’altra, non conducono i loro sostenitori a farsi un’idea di chi sia responsabile di questi conflitti e su chi applicare una pressione che potrebbe salvare molte vite.
Ci sono ancor più contraddizioni nella pratica. Mentre il colpo di stato guidato dagli USA contro il Venezuela continua a svolgersi, ricordiamo la performance di HRW il mese scorso, quando l’organizzazione appoggiò il tentativo degli USA di forzare l’ingresso in Venezuela con “aiuti umanitari” (il Venezuela ha sempre accettato l’aiuto umanitario da altri paesi, ma ha rifiutato l’aiuto degli USA, citando il loro tentativo di colpo di stato). Adam Johnson di Fairness and Accuracy in Reporting (Obiettività e Accuratezza dell’Informazione) ha notato su Twitter che HRW “non appoggia mai tecnicamente il cambio di regime ma trasmette ogni brandello di propaganda fuorviante e distorto richiesto per il cambio di regime, e poi, quando messi alle strette su questo, insistono che loro sono arbitri imparziali”. Il direttore esecutivo di HRW Kenneth Roth ha direttamente giustificato il tentativo di colpo di stato, definendolo “triste certificato della… distruzione della democrazia venezuelana da parte di Maduro, tanto che il leader dell’opposizione deve ricorrere agli appelli ai militari”. L’ossessione di Roth per il Venezuela è andata avanti per anni, durante i quali gravi violazioni dei diritti umani e della democrazia in altri paesi dell’America Latina, in particolare in Honduras, sono state trascurate da HRW.
Amnesty ha fatto poco meglio. Nella sua lista di 10 elementi della crisi venezuelana, Amnesty ha trovato il coraggio di includere, come decimo ed ultimo elemento, le “dannose sanzioni degli USA”. Le sanzioni, che un funzionario americano ha paragonato in modo non ironico al cattivo di Star Wars, Darth Vader, che soffoca qualcuno a morte usando la forza, potrebbero aver meritato il primo posto in quella lista, dati i loro effetti, cui si aggiunge il furto da parte degli USA e del Regno Unito di miliardi di dollari di fondi appartenenti ai venezuelani, con danno alla produzione petrolifera venezuelana, al suo settore energetico e persino al suo sistema sanitario.
La campagna statunitense contro il Venezuela oggi fa eco alla campagna per rovesciare Salvador Allende nel 1973, quando Nixon ordinò al direttore della CIA di “mettere in ginocchio l’economia del Cile di Allende”, e quando l’ambasciatore statunitense in Cile disse ad Henry Kissinger: “Non permetteremo che al Cile di Allende arrivi un dado né un bullone. Se Allende prenderà il potere, faremo tutto il possibile per condannare il Cile e i cileni alla massima privazione e alla povertà, una politica pensata da lungo tempo per aggravare le dure caratteristiche di una società comunista” (citato da Peck, p. 57).
Le incoerenze nella pratica sono accompagnate da problemi con la teoria dei diritti umani, in quanto Amnesty e HRW non sono contrari alla guerra aggressiva per principio. Il quadro giuridico internazionale del secondo dopoguerra definì la guerra aggressiva come il crimine supremo a cui seguirono tutti gli altri crimini del regime nazista; la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ha riconosciuto i diritti sociali ed economici come diritti umani. Ma l’ex direttore esecutivo di HRW, Aryeh Neier, ha sostenuto che “il concetto di diritti economici e sociali è profondamente antidemocratico” e che “HRW non ha mai etichettato come aggressore alcuna parte in conflitto, ritenendo che il concetto di aggressione sia definito in modo insufficiente. Come hanno sostenuto Israele e gli USA alla conferenza di Roma del 1998… è impossibile trovare una definizione di aggressione che non sia politicamente controversa” (citato da Peck pp. 95 e 227, il grassetto è mio). Ma il concetto di aggressione non è peggio definito (e nemmeno più contestato) rispetto ad altri concetti sui diritti umani: genocidio, democrazia, dittatura, prigioniero politico, persino tortura. Il rifiuto delle organizzazioni per i diritti umani di opporsi all’aggressione le lascia in una posizione avvilente di mendicare dagli aggressori che cerchino di condurre le loro campagne di bombardamento in un modo che minimizzi i danni ai civili – come sa ogni lettore che ha fatto una smorfia leggendo le relazioni di HRW o di Amnesty sulla guerra di Arabia Saudita / USA / Regno Unito contro lo Yemen, o sugli attacchi israeliani a Gaza.
Non è così che si difendono posizioni di principio. Ma cosa fare? Scoprire le parzialità delle organizzazioni per i diritti umani è ancora più demoralizzante che scoprire il potere di propaganda dei social media. È impossibile trovare una democrazia e un insieme di social media globalmente connessi che alimentino il pensiero critico, ed è impossibile per una persona di coscienza trovare un database globale completo e imparziale delle violazioni dei diritti umani. D’altra parte, le soluzioni potrebbero essere simili: creare connessioni, contatti e, in definitiva, movimenti del mondo reale.
Nel suo “Ideal Illusions”, Peck contrappone le organizzazioni per i diritti umani legalizzate, burocratizzate e in ultima analisi cooptate, ai movimenti pacifisti che nacquero e tramontarono negli stessi decenni.
L’alternativa a quelle organizzazioni cooptate è proprio quel tipo di movimento per la pace: contro la guerra per principio, contro l’aggressione, che vuole smantellare l’economia di guerra, che comprende la differenza tra i potenti e coloro che resistono, che fa leva sul potere della gente e non su cavilli legali e ossequio ai potenti.
- Justin Podur è uno scrittore che vive a Toronto. Puoi trovarlo sul suo sito Web all’indirizzo podur.org e su Twitter @justinpodur. Insegna all’Università di York nella Facoltà di Studi Ambientali.
Traduzione dall’inglese di Leopoldo Salmaso