Già s’odono le grida: e allora facciamoli entrare tutti!
La sentenza emessa ieri dalla Corte di Cassazione dice altro: ossia che, prima di negare lo status di rifugiato a un richiedente asilo che dichiara di essere omosessuale e di rischiare la vita a causa del suo orientamento sessuale, dev’essere accertato non solo se nel paese di origine non vigano leggi discriminatorie, ma pure se le autorità locali forniscano “adeguata tutela” al ricorrente, anche quando colpito da persecuzioni di tipo familiare.
In una settantina di paesi l’omosessualità è un reato e in una decina di questi è prevista la pena di morte: all’elenco si è ultimamente aggiunto il sultanato del Brunei.
Il caso all’esame della Cassazione non era relativo a uno di questi paesi: in Costa d’Avorio l’omosessualità non è un reato. Ma in ballo c’è, comunque, il dovere di protezione da parte delle autorità, che hanno l’obbligo di fornire adeguata tutela a tutti i cittadini, a prescindere dal loro orientamento sessuale.
Lo Stato, dice la Cassazione, deve proteggere anche da minacce provenienti da privati: i familiari in questo caso, ma potrebbero essere altri attori non statali, compresi i gruppi armati.
In altre parole, la sentenza della Cassazione ci ricorda che sono necessari accertamenti rigorosi da parte di chi esamina le richieste di protezione. Nulla di rivoluzionario, anche se in questo paese oggi allinearsi agli standard internazionali in materia d’asilo appare davvero un atto rivoluzionario.