Sul rapimento di Silvia Costanza Romano, avvenuto in Kenya il 20 novembre 2018, ci sono almeno due possibili cause – collegate tra loro? – che spiegano perché il gruppo terroristico al-Shabaab (“I Giovani”) abbia deciso di rapire una cittadina italiana: il viaggio del Presidente somalo Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmajo” a Roma nelle stesse ore del rapimento e l’attività dell’Italia in Somalia.
Per ora sono entrambe ipotesi, perché dopo oltre 100 giorni quella di Silvia Costanza Romano è una storia da declinare ancora al condizionale.
Uno scambio tra Silvia Romano e Mogadiscio?
Nelle ricostruzioni successive è accertato che il commando di rapitori, a Chakama – zona considerata ad alto rischio rapimenti – cerca la “mgeni”, la “bianca”, la straniera. La cercano per una rapina perché sono sei balordi, si legge nelle cronache delle prime ore, ma è una pista che si raffredda subito. Oppure, come spesso accade, il denaro a quel gruppo lo dà al-Shabaab, secondo una delle ricostruzioni più plausibili sul rapimento – insieme a quella del rapimento a scopo di rapina da parte di semplici criminali kenioti – in assenza di notizie.
Ci vogliono oltre cento giorni per associare il nome della giovane cooperante milanese a quello del gruppo terroristico somalo, dal 2012 associato al network della rediviva al-Qaeda. Una informazione più accurata potrebbe aiutare a capire le dinamiche di una vicenda che ad oggi parla di 14 arresti da parte delle autorità keniote. della vicenda – che oggi parlano di 14 arresti da parte delle autorità del Kenya. La richiesta di silenzio stampa per proteggere le indagini rende di fatto impossibile capire se esistano davvero delle trattative segrete da parte della Farnesina e della nostra ambasciata a Nairobi.
Che trattative, segrete o meno, ci siano è un dato quasi scontato, a meno di non voler pensare ad un governo che segua la “linea Gramellini”, lasciando Silvia Romano al suo destino per poi elogiarla, postuma, come esponente dell’”Italia migliore” nelle dichiarazioni ufficiali e sui media.
L’Italia e la (nuova) ricostruzione della Somalia
Ma l’Italia, in Somalia, esattamente cosa fa?
I rapporti Roma-Mogadiscio non parlano solo di Ilaria Alpi, rifiuti tossici, traffico d’armi (Repubblica Bologna; Antonella Beccaria) e malacooperazione. Dal 2012 l’Italia è impegnata in Somalia nel contrasto al terrorismo e alla pirateria tanto quanto nella ricostruzione di infrastrutture stradali, di scuole e ospedali come quello di Mogadiscio o del ministero della Difesa. Con 123 militari (e 20 veicoli) dal 2014 al contingente italiano è affidato il compito di addestrare le reclute dell’Esercito nazionale e della Polizia – a cui l’Italia ha equipaggiamenti di seconda mano – nell’ambito dell’operazione europea “Eutm”.
Mentre ingegneri ed ufficiali della futura intelligence somala vengono a studiare a Roma e Firenze, i futuri addestratori somali vengono addestrati dai Carabinieri del 9° Reggimento d’assalto “Col Moschin” della Brigata Folgore, negli anni ’90 al centro dello “scandalo torture”. (Repubblica; New York Times).
Grazie alla collaborazione con il “Mother and Child Health Center” è stato possibile aprire un consultorio per vittime di violenza domestica, mentre all’ospedale “Forlanini” personale medico italiano aiuta i colleghi somali nella cura delle malattie mentali. Tutte attività coordinate dal Cimic, la Cellula di cooperazione civico-militare del National Support Element IT (Difesa.it; European Affairs) e volta a migliorare la situazione socio-economica del Paese su cui ricostruire istituzioni nazionali e locali più forti (e democratiche).
Istituzioni che, dopo l’avvio del processo di stabilizzazione politica iniziato con la Conferenza di pace di Nairobi (2004), dal 2017 sono guidate da Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmajo”, primo Presidente della Repubblica Federale eletto dopo venti anni di guerra civile. Professore di storia a Buffalo (Stati Uniti) prestato alla politica, Abdullahi Mohamed ha posto al centro del suo programma politico la riforma delle forze armate e, soprattutto, la sconfitta di al-Shabaab, che oggi controlla aree rurali come Galmudugh e Debatscile pur dovendo fare i conti con una sempre più ampia lista di ex dirigenti che si consegnano alle autorità.
Nonostante questo, il 14 ottobre 2017 il gruppo riesce ad uccidere 512 persone – ferendone altre 316 – con due camion bomba nel distretto di Hodam a Mogadiscio, che poco meno di un anno dopo (1 ottobre 2018) è scenario dell’esplosione di una autobomba contro il contingente italiano: illesi i quattro militari del blindato Lince colpito a poche centinaia di metri dal ministero della Difesa, quattro saranno anche i civili uccisi dall’esplosione.
Un paese da ricostruire tra petrolio, telefoni e…”Formaggio”
Oltre ai “giovani” terroristi, l’agenda politica di “Farmajo” deve fare i conti anche con vasti periodi di siccità – che nel solo 2017 porta almeno un milione di somali a migrare in altre regioni del Paese – e con il dilagare della violenza sessuale, soprattutto contro bambine e ragazze. In quello stesso anno, secondo i dati raccolti dall’Ufficio Onu per il coordinamento degli aiuti umanitari, 388 mila bambini sono affetti da malnutrizione.
Il comparto alimentare è, allo stesso tempo, problema e soluzione: se infatti la popolazione tende a migrare anche per l’insicurezza alimentare, i settori dell’allevamento dell’agricoltura sono due dei settori economici che la stabilità politica permetterà di sviluppare, dando così maggiore stabilità economica e di conseguenza sociale. Già oggi, riportano i dati elaborati da InfoMercatiEsteri, i due settori coprono il 40% del Pil nazionale. Nei prossimi anni forte sarà l’interesse per petrolio e gas naturale somali: riserve sono state trovate ad Habra Garhajis (nord-ovest); Nugal (centro-nord); Almado-Dharoor (nord-est) e lungo le coste meridionali al confine con il Kenya. Quello estrattivo è indicato come il settore economico a più alto potenziale di sviluppo del Paese, che già oggi punta molto sulla telefonia, che anche grazie alla collaborazione con aziende europee e cinesi è tra i servizi più tecnologicamente avanzati dell’intero continente africano e dai costi più accessibili al mondo.
Export Italia verso Somalia https://atlas.media.mit.edu/en/visualize/tree_map/hs92/import/som/ita/show/2017/
Export Somalia verso Italia https://atlas.media.mit.edu/en/visualize/tree_map/hs92/export/som/ita/show/2017/
La visita del Presidente somalo tra le cause del rapimento di Silvia Romano?
È questo il biglietto da visita (economico) che il Presidente Abdullahi Mohamed presenta durante la sua visita in Italia (20-22 novembre 2018) in cui oltre ai vertici istituzionali ha avuto colloqui con rappresentanti dell’Università e della finanza oltre che con un centinaio di imprese italiane, tra cui il Gruppo Piccini di Perugia, nel 2013 accusato dall’Onu di aver venduto equipaggiamenti militari al regime eritreo di Isaias Afewerki nonostante l’embargo. Mentre il Presidente somalo stringe mani italiane, a Mogadiscio 92 deputati chiedono l’impeachment, accusandolo di aver firmato un accordo – segreto e dunque incostituzionale – per la cooperazione economica e nel campo della sicurezza con Eritrea ed Etiopia. È solo un caso che Silvia Costanza Romano venga rapita lo stesso giorno dell’arrivo della delegazione somala in Italia? È in questi incontri italiani che va cercato il movente del rapimento?
Cambia il governo, non la difficoltà di essere giornalisti in Somalia
Domande a cui potrebbe trovare risposte il giornalismo somalo, ma nonostante la liberazione di molti giornalisti incarcerati e l’apertura di decine tra giornali privati, siti d’informazione radio e televisioni – in grado creare collaborazioni con network internazionali come Cnn e Bbc – con le nuove istituzioni non sono stati però registrati passi avanti nella sicurezza dei giornalisti, che in Somalia rimangono obiettivo tanto di al-Shabaab quanto di funzionari del governo e delle forze di sicurezza: è il caso di Abdiaziz Mohamed Ali Haji, giornalista di Radio Shabelle ucciso in un agguato il 28 settembre 2016, mentre va a trovare i suoi genitori a Mogadiscio. Tra i suoi interessi l’impatto sui civili del conflitto tra le forze governative e i “giovani” jihadisti. Omicidio che segue di pochi mesi quello di Sagal Salad Osman, studentessa universitaria e redattrice di Radio Mogadiscio, nota per le sue posizioni filo-governative.
Dei 26 giornalisti uccisi nell’ultimo decennio – 66 dal 1993 secondo il Committee to Protect Jounalists, tra cui gli italiani Ilaria Alpi e Marcello Palmisano – otto facevano parte proprio della redazione di Radio Shabelle: tra questi anche l’ex direttore Bashir Nur Ghadi, ucciso nel 2007. Nel solo 2018 ben 14 giornalisti sono stati arrestati senza un giusto processo, mentre sotto la presidenza di Hassan Sheikh Mohamud (2012-2017) sono stati premiati due poliziotti – Abdicasis “Africa” e Jebril Abdi – accusati dello stupro della giornalista Fadumo Adbulgadir Hassan di Kasmo Radio (“La voce delle donne”) che, per essersi ribellata alla violenza viene processata e condannata.
DATASET: https://cpj.org/data/killed/africa/somalia/murder/?status=Killed&motiveConfirmed%5B%5D=Confirmed&type%5B%5D=Journalist&cc_fips%5B%5D=SO&start_year=1992&end_year=2019&group_by=year
Per approfondire: http://caffedeigiornalisti.it/arrivano-a-roma-le-voci-di-radio-shabelle/ + https://unsom.unmissions.org/sites/default/files/unsom_freedomexpressionreport_aug312016.pdf
Gli assassini dei giornalisti o rimangono ignoti o vengono messi a morte, in piena violazione degli standard internazionali.
Dei loro assassini nessuna traccia, mentre chi viene condannato viene spesso messo a morte, in piena violazione degli standard internazionali. Alcuni dei principali repressori della libertà di stampa nel Paese sono rimasti al loro posto nonostante il cambio delle istituzioni, denuncia Omar Faruk Osman, segretario generale del Sindacato dei giornalisti somali (Nusoj). Oggi il sindacato si batte per l’indipendenza delle testate giornalistiche – finanziate dal governo in cambio della loro fedeltà – e contro una nuova legge, emanata nel 2017, che permette alle istituzioni di agire penalmente contro gli operatori dell’informazione accusati di propaganda o di pubblicare notizie false, i cui standard sono decisi dal governo.
Così i giornalisti possono essere arrestati con qualsiasi pretesto, perché magari hanno criticato l’operato delle forze speciali. È quanto capita anche a Nicholas Haysom, inviato speciale Onu espulso a gennaio 2019 dalla Somalia per aver criticato le modalità di arresto di Mukhtar Robow, ex portavoce di al-Shabaab, da cui si dissocia nel 2017. Haysom chiede spiegazioni anche in merito alle circostanze che portano a 15 morti e 300 arresti durante le manifestazioni contro l’arresto tenutesi a Baidoa.
Un giornalismo ancora controllato dal governo non può ad esempio denunciare i «crimini di guerra avvolti dal segreto» degli attacchi via drone portati avanti dagli Stati Uniti, né l’alto livello di abusi perpetrati dalle forze di sicurezza, in particolare da parte dei membri della National Intelligence and Security Agency (Nisa), artefici di arresti arbitrari senza accuse né possibilità per gli arrestati di comunicare con legali e familiari; di omicidi illegali e violenze contro i civili ai posti di blocco o nelle operazioni di disarmo contro al-Shabaab. Contro queste azioni è aumentato il numero di processi, ma nonostante l’istituzione nel 2018 di una specifica Commissione per i diritti umani il loro livello rimane ampiamente al di sotto degli standard internazionali. Impuniti rimangono tanto gli attacchi agli operatori umanitari quanto gli abusi da parte di membri dell’Amisom – la missione dell’Unione Africana in Somalia – come lo stupro di tre ragazze a Belet-Hawo nel luglio 2017 da parte delle forze keniane della missione – e che si aggiungono ad una lunga lista di abusi delle forze di peacekeeping nel continente africano (Nigrizia; Africa Rivista).
Dónde están Silvia e Luca?
Silvia Costanza Romano è, a 5 mesi dal suo rapimento, una desaparecida. Così come ad oggi lo è anche Luca Tacchetto, scomparso a dicembre in Burkina Faso insieme alla canadese Edith Blais a dicembre. Le istituzioni latitano protette dietro un’informazione completamente disinteressata ai nostri “esteri” e al netto di trattative ipotizzabili ma non accertate, sembrano aver abbracciato il pensiero di Massimo Gramellini, che ha criticato la scelta di Silvia Romano di andare in Kenya suggerendole di «soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta», in una sorta di “prima gli italiani” del volontariato che ha, peraltro, la possibilità di «costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto».
Mentre Silvia e Luca rimangono desaparecidos, i media raccontano la liberazione di Sergio Zanotti, imprenditore rapito in Siria nel 2016 e di Sergio Favalli, anche lui imprenditore, rapito in Nigeria il 30 marzo. La ricostruzione governativa parla, per entrambi, di operazioni dell’Aise, il nostro servizio segreto estero. Sappiamo, però, che l’Italia tende a pagare i riscatti, pur non ammettendolo. In entrambi i casi – riscatto o blitz dei servizi – la domanda su Silvia e Luca rimane: non sono ancora stati liberati perché per il governo la vita di un volontario vale meno della vita di un imprenditore?