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E qui vorrei e dovrei fermarmi. Dovrei e vorrei non raccontare, non scrivere, non spiegare. Vorrei e dovrei stare in silenzio, fare silenzio, lasciare che il silenzio copra tutto e tutti, un silenzio che non sia solamente assenza di suono, ma un silenzio costruito con parole di sangue e dolore, un silenzio che sia grido, che sia urlo, un silenzio contro l’orrore dello scherno, questo sì, silenzioso, muto, questo sì, un silenzio di oltraggio e derisione, dileggio e umiliazione, burla e irrisione per chi invece urla il suo silenzio impotente sommerso nel sangue, nell’orrore, affogato nel disprezzo, consapevole di non avere diritti, di non avere voce, consapevole di essere carne e corpo, bersaglio in movimento, carne e corpo da essere usato consumato ucciso e dimenticato.
Ma è come se il silenzio venga interrotto dalle parole ascoltate mille volte: i professionisti della violenza siamo noi, la mia specialità è uccidere, in ogni guerra può morire gente innocente, la polizia avrà licenza di uccidere, se il soldato è stato sottoposto ad una forte emozione sarà perdonato, prima devi sparare poi gli chiedi i documenti. È come se gli ottanta colpi sparati, non fossero andati a segno ma si fossero perduti nell’eco di un rimbombo. Le parole arrivano prima, le parole uccidono prima. Con frasi e affermazioni perentorie ci si prepara il terreno in modo tale che quando poi la cosa succede davvero, in qualche modo la si aspettava come un dato di fatto, se si rovescia un barcone con la gente dentro la pacchia è finita, se si sparano ottanta colpi contro Evandro dos Santos Rosa, sono cose che possono capitare, perché dopo una settimana di silenzio totale, le parole presidenziali hanno già decretato la verità: L’esercito non ha ucciso nessuno, l’esercito è del popolo e non si può accusare il popolo di omicidio. Il caso è chiuso. Non importa se gli autori materiali degli spari siano ora sotto inchiesta, non importa. Ormai sappiamo che l’esercito, che occupa Rio de Janeiro dal dicembre del 2017, può sparare ottanta colpi contro chiunque e sarà sempre assolto. Una pattuglia di soldati decide che quella macchina bianca è una macchina sospetta. Spara. il suocero, la moglie, il figlioletto e l’amica riescono a salvarsi. Amore corri, scappa, sono le ultime parole di Evandro in agonia davanti alla famiglia. Ridono i macellai, sanno che hanno sparato a una famiglia, in pieno giorno, in una strada di città, una via pubblica tra palazzi e negozi, ridono davanti alla moglie in ginocchio ad implorare aiuto. Ridono. Ottanta colpi. Sia maledetto il soldato che alza le armi contro la sua gente, diceva Simon Bolivar.
Vorrei essere un poeta, vorrei scrivere come Garcia Lorca una poesia che avesse il suono del rintocco di una campana funebre, a las cinco de la tarde, a las cinco en punto de la tarde, erano le cinque in punto della sera, che terribili cinque della sera! Eran le cinque in tutti gli orologi, eran le cinque in ombra della sera. Vorrei essere un poeta per scrivere parole di silenzio, poi ricordo che il silenzio è la loro arma, poi ricordo che vogliono ridurci al silenzio. Ci sparano addosso e non chiedono scusa, dicono che destiamo sospetti, dicono che la macchina bianca con mio figlio, mio suocero, mia moglie, e un’amica, è potenzialmente pericolosa. Ottanta colpi. E le urla. E il silenzio. Una bandiera sporca di sangue avvolge la bara. Ottanta colpi. Evaldo dos Santos Rosa.