Ma davvero “Senza sinistra in Europa niente risposte ai giovani”, come il Manifesto titolava domenica scorsa un articolo di Rossella Muroni? Per esprimere le sue potenzialità questo nuovo movimento non ha alcun bisogno di una “sinistra” che non c’è; e non per caso. E’ la sinistra che non c’è più ad aver bisogno di quel movimento per cercare di tornare in vita; con il rischio di distruggerlo, come dopo il G8 di Genova e in altre occasioni.
Nessuno nasce rivoluzionario, e nemmeno democratico. Si riceve l’imprinting dalla propria famiglia e, crescendo, lo si fa proprio o lo si rifiuta. Contano i percorsi e soprattutto le persone che si incontrano. Venerdì scorso a Milano centomila giovanissimi hanno incontrato se stessi e si sono resi conto del fatto che, tutti insieme, sono una cosa diversa da ciò che pensavano o gli avevano fatto credere di essere. In questo inizio di movimento hanno capito che per salvare se stessi e il pianeta occorre cambiare e rovesciare tutto.
Nemmeno c’è da insistere perché quel movimento si orienti in senso “anticapitalista”. Che cosa significa? Molti pensano ancora il capitalismo come un universo chiuso da una porta (blindata); che una volta sfondata immetterà tutti in un altro locale già ben arredato (dalli ”sviluppo delle forze produttive”): il “socialismo”. Ma dietro quella porta non c’è alcun socialismo. Forse un altro locale c’è, ma è vuoto e o pieno di cianfrusaglie molto ingombranti e bisogna svuotarlo e arredarlo di nuovo. Il socialismo sembra forse rinascere con uomini come Corbyn e Sanders. Ma nel socialismo di Corbyn c’è poco di nuovo, se non l’entusiasmo di chi lo sostiene. E in quello di Sanders c’è soprattutto l’affermazione (che negli USA fa ancora scandalo) che non tutto deve essere privato e che pubblico può essere meglio.
Da noi, in Europa, sappiamo che non basta. Gli arredi di quel locale occorre cominciare a metterli insieme fin da ora, con un percorso comune (e un primo appuntamento può essere la manifestazione del 23 marzo contro tutte le Grandi opere inutili). Chi ne ha può mettere a disposizione le proprie esperienze, ma con l’umiltà di chi ha poco da insegnare e molto da imparare.
Ci troviamo di fronte a un movimento globale che, tra alti e possibili bassi, non potrà che crescere, perché si fanno sempre più urgenti le ragioni che l’hanno fatto nascere. E di fronte alla necessità di una svolta così radicale (ne va del futuro del genere umano) che non può essere affrontata con il bagaglio e le parole di un’altra epoca. Hanno ragione i circoli del Nordest quando scrivono: “dovremmo cominciare a pensare che ‘transizione ecologica’ sia uno dei nomi nuovi della rivoluzione”. Quella transizione, o conversione, ecologica è fatta di analisi e prospettive globali a cui hanno lavorato per anni scienziati e tecnici. Ma è fatta soprattutto di progettualità locale, di iniziative portate avanti là dove ciascuno può cercare di “mettere mano”, secondo il principio “pensare globalmente e agire localmente”.
In molti hanno cominciato a farlo; è con la pratica e con l’esempio che si può entrare in contatto con questa generazione che di vecchi miti e vecchi riti non ne vuol sapere: con le lotte contro la manomissione del proprio territorio e contro tutti gli impianti destinati a prolungare nel tempo l’utilizzo di fonti fossili e la produzione ulteriore di Co2 (al primo posto, il Tap, le trivelle e il cantiere del Tav); con la progettazione e l’installazione di impianti per le energie rinnovabili e la promozione di comunità energetiche, con la conversione ecologica dell’agricoltura e della propria alimentazione, in un’alleanza fatta di rapporti diretti tra chi coltiva la terra o trasforma gli alimenti e chi li sostiene garantendo loro un reddito certo: un modello che si è dimostrato trasferibile in altri ambiti: mobilità, housing, manifattura in 3D e altro. E ancora, con una sanità fondata sulla prevenzione più che sulle terapie e con modelli di istruzione che rendano bambini, allievi e studenti persone autonome e indipendenti. Persino con banche e monete locali pensate per far vivere una comunità e non per strangolarla.
In una parola, con la cura della Terra e del nostro prossimo che trascenda la distinzione tra lavoro produttivo e riproduttivo. Sono pratiche con cui le nuove generazioni raramente vengono messe in contatto. Nella scuola non si insegnano; per questo saltare la scuola per salvare la Terra (Fridays for Future), oltre che dell’irresponsabilità dei potenti, è anche critica di una scuola dai saperi inadeguati.
E’ la conversione ecologica la risposta ai principali problemi del nostro tempo: il lavoro che manca; ma le cose indispensabili, che possono dare lavoro, utile e creativo, a tutti, sono tantissime. Le migrazioni; accogliere e includere i nuovi arrivati sarà di nuovo possibile dando loro un lavoro (regolare), come lo era stato negli anni della ricostruzione e del “miracolo economico” del secolo scorso, senza ripetere gli errori di allora. La pace, perché la prima industria da riconvertire è quella delle armi e senza armi non si fanno le guerre. E il ritorno volontario nelle loro comunità dei profughi e dei migranti già arrivati o che verranno in Europa perché nei loro paesi non possono più vivere, ma che continuano a sperare di potervi tornare.
Perché soprattutto là sono necessarie sia la conversione ecologica del loro ambiente, devastato da multinazionali, grandi potenze e guerre, sia la conversione sociale delle loro comunità, compromesse da anni di conflitti fratricidi. Un compito che non può essere affidato ai governi corrotti dei loro paesi, né ai capitali e alle imprese corruttrici dei nostri (“aiutiamoli a casa loro”), ma solo a una grande leva di migranti di ritorno, se sapremo accoglierli come meritano e aiutarli a prendere in mano, insieme al loro destino, quello dei popoli che hanno dovuto lasciare e quello dell’intero pianeta. Dunque, “aiutiamoli a casa nostra” (che “nostra” non è, perché è di tutti).