Succedeva molti anni fa, sedici per la precisione, quando quella ragazza tanto delicata quanto tenace nella sua volontà di ostacolare la potenza del male e dell’ingiustizia scriveva: “…essere trattata sempre con tanta dolcezza da persone che vanno incontro alla catastrofe…visto dagli USA questo sembra un’iperbole. Sinceramente la grande gentilezza della gente qui, assieme ai tremendi segni di deliberata distruzione delle loro vite, mi fa sembrare tutto così irreale…. Non riesco a credere che questo possa succedere nel mondo senza che si sollevi un’enorme indignazione. …. ma sto scoprendo anche una forza straordinaria …dell’essere umano di mantenersi umano anche nelle circostanze più terribili…Credo che la parola giusta sia dignità”
Poi quell’ingiustizia contro cui combatteva la uccise, schiacciandola con la benna di una ruspa che demoliva case palestinesi senza che il mondo istituzionale inserisse Israele nella categoria degli Stati canaglia e ne fermasse i crimini.
Oggi qualcuno, nell’anniversario del suo assassinio, ricordandola sui social con quelle parole tratte da una lettera ai suoi genitori, ha sollecitato un commento che mi riguarda. Il commento dice ” anche Patrizia Cecconi direbbe le stesse cose“. E’ vero, ma non solo io. Chiunque conosca un po’ la realtà palestinese, la conosca “davvero” e non si lasci tradire dagli stereotipi in positivo o in negativo, sa che quello che Rachel descriveva con stupore ma con grande empatia è la pura realtà.
Una realtà che per noi ha del surreale, ma è così. Qualcuno ha provato a leggerla con lenti sbagliate, cioè con le lenti della propria specifica cultura, attribuendole a volte aggettivi positivi tout court o, a volte, negativi, quali indifferenza o separazione dalla tragedia che tocca altri, o superficialità e via attribuendo.
No, io sono convinta – e l’ho sintetizzato in un aforisma in un mio libro – che per la cultura palestinese, intesa come cultura antropologica formatasi in secoli e secoli di occupazioni e dominazioni diverse, “la tragedia è un momento e la vita che resiste è tutto il resto“.
In questa resistenza della vita c’è dentro anche quella cura verso l’altro, lo straniero che viene in solidarietà e al quale si dedica attenzione e amore e ci si occupa di lui come avesse bisogno di essere accudito e rassicurato “perché non è abituato ai bombardamenti”!
Quella realtà che a noi sembra surreale, come ad esempio andare in piazza al Khatiba a poche ore dai bombardamenti che l’hanno colpita ancora una volta e trovare bambini saltare su un grosso jumping carpet o spingersi sulle altalene di un modesto parco giochi e tante famiglie riunite ciascuna intorno a una grande tovaglia stesa a terra, coperta di cibi e dell’immancabile caffè arabo per il picnic del venerdì, nonostante i droni, presenti col loro tormentoso ronzio, seguitino a monitorare la situazione e a rappresentare una minaccia costante.
Impossibile fare foto del luogo; il governo locale – in allerta date le infiltrazioni nemiche scoperte recentemente – lo vieta. Impossibile farle anche per etica personale, suonerebbero un po’ come le foto al fenomeno da mostrare al mondo e questo non sarebbe rispettoso. I ragazzi che mi accompagnano trovano normale che decine di famiglie stiano facendo il loro picnic dove poche ore prima sono cadute le bombe e ridono. Hanno avuto reazioni molto diverse la notte scorsa, notte passata interamente sotto i bombardamenti. Uno è stato in chat con me e con altri fino alle 6 del mattino, l’altro invece ha dormito profondamente restando nella sua casa, senza seguire la famiglia che aveva scelto, come molte altre, di uscire in strada per ridurre il rischio di finire schiacciata sotto le macerie.
Ridiamo tutti e tre, sì, anch’io, perché quando si sta qui a lungo e ci si sta col cuore oltre che con la mente, senza lasciare che il secondo vinca sulla prima, ma senza accantonarlo, si viene contaminati da questa cultura e se ne capisce la differenza senza provare a sovrapporsi (o anche a sottoporsi) ad essa, ma semplicemente vivendola come loro la vivono.
Questo Rachel lo aveva capito molto bene, ma restava il suo stupore davanti a una dolcezza di modi nonostante la durezza della vita dovuta a un’ingiustizia continuata. Si chiedeva come fosse possibile che il mondo e in particolare il suo paese, gli USA, accettassero i crimini israeliani contro questa popolazione tacendo o, addirittura, supportando Israele. Avrebbe pagato con la vita il suo impegno e il suo stupore e, ancora, dopo il suo assassinio, avrebbe subito una sorta di “scempio di cadavere” da parte dei tribunali israeliani che l’avrebbero ritenuta responsabile della sua stessa morte perché aveva osato opporsi all’esecuzione di un ordine dello Stato canaglia che il mondo coccola definendolo democratico.
Rachel è rimasta nel cuore del mondo dei giusti. Accanto a lei altri martiri, palestinesi e internazionali, un giorno saranno ricordati e rispettati e i loro nomi rappresenteranno perennemente la vergogna dello Stato ebraico e dei suoi numerosi supporter. Lo sanno bene quegli israeliani e quegli ebrei non israeliani che oggi si vergognano di Israele come un giorno gli antifascisti italiani e gli antinazisti tedeschi si vergognavano dei loro paesi.
La storia è dinamica al pari della vita e io oggi, al pari di decine e decine di migliaia di altri attivisti per i diritti umani, onoro la memoria di Rachel Corrie facendo mie le sue parole e guardandomi intorno in questa striscia di terra in cui Israele seguita a mietere vittime senza riuscire a stroncare la resistenza della vita che germoglia anche sotto le bombe.
Ciao Rachel, il tuo sacrificio non sarà stato vano.