«Io in fondo sono fortunato. Finirò forse sotto processo ma non faccio certo la vita di chi vive nel campo di San Ferdinando. Alex Zanotelli, che di bidonville ne ha viste tante in Africa, dice che da noi è peggio». Mimmo Lucano risponde in questa maniera a chi lo chiama, stanco forse, ma per niente pronto ad arrendersi.
La sentenza del 27 febbraio della Suprema Corte di Cassazione ha accolto in parte il suo ricorso contro il “divieto di dimora”. Il Tribunale del Riesame dovrà rivedere se ancora esistono motivi che gli impediscono di tornare a casa o se, come molti pensano, questi non hanno mai avuto motivo di essere. Dal punto di vista giuridico un piccolo passo in avanti. Mimmo oggi è costretto, per il solo fatto di aver celebrato un matrimonio fra una ragazza nigeriana ed un cittadino di Riace, non solo a non poter svolgere le proprie mansioni di sindaco, ma a vivere ospite e in una sorta di esilio a pochi chilometri da casa, ospitato da amici e compagni, confortato in continuazione da migliaia di dimostrazioni di affetto, ma anche subissato di insulti.
«L’intervista che mi hai fatto l’altro giorno per Left (www.left.it) racconta, ha girato molto in Calabria, è stata presa e rilanciata. Molti commenti sono stati di solidarietà, altri di odio puro. Secondo qualcuno non ero neanche degno di pronunciare il nome del Ministro dell’Interno. E questo perché ho detto che io non mi nascondo. A processo ci vado perché so di non essere colpevole che di accoglienza, mentre lui fugge dalla giustizia grazie al suo governo che avrebbe dovuto cambiare l’Italia in nome dell’onestà e della lotta ai privilegi. E mentre c’è attesa attorno alla sua vicenda, mentre si attende anche il pronunciamento rispetto alla campagna di chi lo ha candidato al Nobel per la Pace, c’è anche chi vorrebbe farlo dimenticare e seppellire attorno ad una vicenda giudiziaria iniziata quando al governo c’era il centro sinistra e accelerata oggi da chi pretende di far finire una esperienza che è stata ripresa in mezzo mondo.
Perché a quelli che lo insultano dalle tastiere va detto chiaramente: in 17 mesi di intercettazioni telefoniche e forse anche ambientali non è emerso nulla che provi un comportamento illecito, magari aggravato da interessi privati. Mimmo Lucano viveva in una casa normale, che per i suoi accusatori sarebbe da considerare umile, non ha mai intascato 1 euro dai tanti progetti messi in piedi, ha solo lavorato 24 ore al giorno. «E se a San Ferdinando si vive in condizioni di degrado – racconta – se lì lo Stato è sparito e non fa valere la propria autorità se non minacciando sgomberi e altri container dopo l’ennesima morte di un ragazzo che tentava di riscaldarsi. Se lì lo Stato non cerca chi sfrutta le persone, in altri Comuni vicini a Riace si ripropongono gli stessi metodi repressivi. A Gioiosa Jonica Marina solo pochi giorni fa è stata restituita agibilità democratica, a due mesi dalle elezioni. La precedente giunta era stata sciolta per “infiltrazioni mafiose”, praticava l’accoglienza, come noi. C’è voluto un ricorso al TAR del Lazio per ribadire che quello è un Comune virtuoso da cui prendere esempio e in cui si combatte realmente il potere mafioso. Ma intanto si è tentato di annientare questa esperienza».
Mimmo Lucano teme non per sé, ma per quanto sta riavvenendo nella sua terra. Teme il ritorno del potere mafioso, che i ragazzi e le ragazze che stavano trovando un lavoro anche grazie ai progetti di accoglienza e di solidarietà che si stavano mettendo in piedi si ritrovino presto disoccupati e ancora una volta costretti ad emigrare. Teme lo svuotamento di zone bellissime di questo paese che potrebbero avere un grande futuro. Ora attende a breve la sentenza che deciderà intanto del suo destino immediato, saprà se dovrà continuare nell’esilio o se potrà almeno rientrare nel suo paese. Un processo, se mai ci sarà, se verrà rinviato a giudizio (ancora non si sa e anche questo è assurdo), avrà tempi lunghi. Ma lui non si arrende e noi con lui.