Il 24 Marzo è una «data imprescindibile» per chi intenda proseguire ed approfondire il proprio impegno per la giustizia e il diritto internazionale, la lotta per la pace e contro la guerra. Ricorrono quest’anno i venti anni della Guerra del Kosovo, con le prime bombe che cadono su Belgrado, capitale dell’allora Repubblica Federale di Jugoslavia, oggi distinta tra Serbia e Montenegro, il giorno 24 Marzo del 1999. Si può “leggere” questa guerra in due fasi: la prima, a cavallo del 1998, con una escalation di azioni da parte della guerriglia, separatista, albanese kosovara, e misure repressive, da parte delle autorità serbe; la seconda, nella primavera del 1999, con l’aggressione intrapresa dalla NATO contro la Jugoslavia. La portata della devastazione causata dalla guerra è resa evidente dalle nude cifre: circa 25.000 appartamenti colpiti; 32 ospedali; 30 scuole; 59 tra chiese e monasteri, 15 musei, memoriali e monumenti; 60 ponti, 24 scali ferroviari, oltre 120 fabbriche distrutte. La Jugoslavia ha subito 2.300 attacchi aerei su circa 1.000 obiettivi individuati, con un volume di circa 420.000 missili per un totale di 22.000 tonnellate di esplosivo sganciate e 30.000 bombe a frammentazione disperse. Senza dimenticare gli attacchi con missili a «uranio impoverito», che semina vittime lungo le generazioni.
Secondo la propaganda di guerra, l’aggressione doveva mascherarsi dietro l’apparenza di un “intervento umanitario”, con l’obiettivo proclamato di frenare la minaccia rappresentata dalle milizie serbe nella provincia e ripristinare i diritti umani violati dei kosovari albanesi. Non una parola, nella propaganda di guerra occidentale, per segnalare il carattere violento e, in alcuni casi, terroristico, delle azioni della guerriglia kosovara. Il concreto sviluppo della campagna di aggressione, durata 78 interminabili giorni, ha poi chiarito la vera posta in palio: colpire ciò che restava della Jugoslavia. Tant’è vero che l’aggressione ha portato alla distruzione di un terzo della produzione complessiva di energia elettrica, di due principali raffinerie di petrolio (Pančevo e Novi Sad), di impianti elettrici, con l’uso di “bombe alla grafite”, per la prima volta adoperate; ha colpito, inoltre, la sede del partito socialista serbo, della radio-televisione serba, perfino dell’ambasciata cinese a Belgrado; ma non ha inibito la capacità militare e le forze armate serbe, pur a fronte di un bilancio agghiacciante di ben 2.500 civili innocenti uccisi e oltre 12.000 feriti, spesso proprio a causa delle “cluster bomb” e altri micidiali ordigni.
La portata della devastazione sul piano culturale e memoriale non è da meno, anzi, se possibile, persino più angosciante: i raid della NATO contro la radio-televisione serba, la notte del 23 Aprile 1999, portano via le vite di sedici tra tecnici, operatori e professionisti; nuovi raid causano, di lì a pochi giorni, la tremenda «strage dell’autobus» presso Lužane, quando, il 1° Maggio 1999, un missile di alta precisione, a guida laser, centra in pieno un autobus partito da Niš e diretto a Prishtina, capoluogo del Kosovo. E, a proposito di ponti, la distruzione dei ponti sul Danubio, il bombardamento di luoghi di rilievo socio-culturale, la violazione di chiese, monasteri e siti religiosi. Come sempre nel contesto della guerra etno-politica, dove la variabile etnica ed i contenuti identitari vengono strumentalizzati per “giustificare” l’intervento armato, non solo i segni culturali del “nemico” vengono precipitati nella violenza, ma la guerra stessa produce riverberi che si propagano ben oltre la fine ufficiale del conflitto armato: considerando le distruzioni operate anche dopo il 10 Giugno del 1999 e in particolare le violenze durante i pogrom del 17 Marzo 2004, sono oltre 150 i siti religiosi della cristianità serbo-ortodossa devastati, vandalizzati, distrutti. Un’irrecuperabile perdita di patrimonio culturale mondiale.
Dietro le apparenze “umanitarie” si cela quindi la realtà scioccante di una campagna di aggressione, cui non fu estraneo il governo italiano dell’allora “centrosinistra”, con cui la NATO e le principali potenze europee ed atlantiche, a partire dagli Stati Uniti, intendevano perseguire ben altri obiettivi. In primo luogo, come accennato, un’esigenza strategica generale: l’omologazione in chiave «atlantica» del continente, eliminando i punti di resistenza e, tra questi, in primo luogo, la Jugoslavia, la cui struttura e la cui leadership, ancora legati allo jugoslavismo e al non-allineamento, non erano evidentemente compatibili con quel disegno. In secondo luogo, un’esigenza strategica legata al riposizionamento militare nello scacchiere europeo e mediterraneo, come fattore di condizionamento della emergente Unione Europea e di contenimento dei rivali strategici, Russia e Cina: subito dopo la guerra, alla fine del 1999, gli Stati Uniti costruiscono in Kosovo la loro più grande base militare in territorio europeo, Camp Bondsteel. In terzo luogo, un’esigenza strutturale, legata alle rotte dei mercati e ai flussi delle risorse, una vera e propria «geopolitica delle risorse», in quella che da sempre, a cavallo tra Europa, Asia e Vicino Oriente, è una regione cruciale, i Balcani, e, al loro centro, il Kosovo. Il Kosovo è, infatti, il crocevia della «griglia energetica» (che, partendo dal Caspio, supera il Mar Nero, giunge in Romania e Bulgaria, attraversa i Balcani Occidentali ed approda, infine, sul Mar Adriatico) ideata dagli Stati Uniti per rifornire gli alleati di petrolio e gas ed aggirare la Russia, estromettendola così dalla competizione energetica.
L’Europa e, per diversi aspetti, il mondo come oggi lo conosciamo è in buona parte prodotto della dinamica strategica innescata proprio con la Guerra del Kosovo: un crocevia della storia, del quale è bene non dimenticare le motivazioni e le responsabilità e per il quale è necessario continuare la lotta, per la pace e per la giustizia.