Arriva da Pierluigi Di Piazza la proposta alla cooperazione sociale di portare il modello Riace nelle montagne spopolate della Carnia, del Pordenonese e del Natisone. Intanto gli enti gestori del percorso di accoglienza in Friuli Venezia Giulia hanno presentato ricorso al Tar del Lazio per mettere in discussione la legalità del Decreto Salvini. È quanto emerso all’ex Opp di Sant’Osvaldo a Udine nel corso di “Accogliamo umani”, l’assemblea regionale di Legacoopsociali Friuli Venezia Giulia.
UDINE – “Progetto Riace per il FVG”, arriva da Pierluigi Di Piazza la proposta alla cooperazione sociale di portare il modello Riace nelle montagne spopolate della Carnia, del Pordenonese e del Natisone. A breve la Mare Jonio del progetto Mediterranea Saving Humans ripartirà dal porto di Palermo per cercare di salvare vite umane nel Mar Mediterraneo. Intanto gli enti gestori del percorso di accoglienza in Friuli Venezia Giulia hanno presentato ricorso al Tar del Lazio per mettere in discussione la legalità del Decreto Salvini. La lotta alle Ong che fanno salvataggi in mare e la lotta a chi fa accoglienza in Italia sono due facce della stessa medaglia e fanno parte dello stesso pacchetto, gestire l’immigrazione a livello emergenziale come una continua macchina della paura e del disordine.
È quanto emerso all’ex Opp di Sant’Osvaldo a Udine nel corso di “Accogliamo umani”, l’assemblea regionale di Legacoopsociali Friuli Venezia Giulia svoltasi lo scorso 11 febbraio, alla quale erano presenti non solo i rappresentanti delle cooperative sociali ma anche una folta rappresentanza degli studenti del Corso di laurea Educatori Professionali dell’Università di Udine. A presiedere i lavori la vice presidente nazionale di Legacoop, Orietta Antonini. Sono intervenuti Alessandro Metz, dirigente di Legacoopsociali nazionale ed “armatore sociale” nel progetto “Mediterranea”, Franco Fullin, presidente della Cooperativa Codess Fvg, Andrea Barachino, direttore della Caritas diocesana di Concordia-Pordenone, don Pierluigi Di Piazza, presidente del Centro Ernesto Balducci di Zugliano, Enzo Gasparutti, presidente di Legacoop Fvg, Gianfranco Schiavone, presidente di Ics – Consorzio Italiano di Solidarietà, e Gian Luigi Bettoli, presidente di Legacoopsociali Fvg.
Ad aprire i lavori Orietta Antonini, che ha evidenziato come il Governo abbia dato vita ad interventi normativi e legislativi seguendo approcci scellerati fortemente ancorati all’emotività e non fondati su dati oggettivi, che hanno confinato nell’illegalità gli interventi di accoglienza e chi ci lavora, peraltro inserendo un nuovo modello di capitolato che non ha voluto tentare di scardinare il modello dell’accoglienza diffusa.
Il progetto Mediterranea – ha proseguito Antonini – ha attivato in questi mesi un dibattito all’interno di Legacoopsociali Fvg in relazione ad un nuovo modello di economia di cui le migrazioni sono soltanto un piccolo tassello. Perché la cooperazione è integrazione, basti pensare all’elevatissima presenza di stranieri con lavoro regolare assunti nelle cooperative, sociali e non sociali.
Per il progetto Mediterranea, Alessandro Metz ha affermato che con la presenza delle navi solidali è possibile raccontare quanto succede ogni giorno nel Mar Mediterraneo, che è considerata la frontiera più pericolosa al mondo, con otto persone al giorno che muoiono nel tentativo di attraversarla. “È una questione di scelte, tra chi festeggia quelle morti o agire, perché non esistono clandestini in mare, ma solo naufraghi da salvare”.
L’operazione Mediterranea sembrava impossibile. Sembrava impossibile comprare una nave per andare a salvare vite in mare. “Personalmente, l’ho fatto perché era l’unica cosa che si poteva fare in quel momento, essere presenti nel Mar Mediterraneo con una imbarcazione solidale, la Mare Jonio.
Sono madri, padri, figlie e figli, sono queste le persone che muoiono nel Mediterraneo. Noi siamo lì anche per raccontare le loro storie, che altrimenti non esisterebbero e resterebbero anonime”.
“Alì mi ha raccontato che in mare si muore urlando il proprio nome. Una mamma mi ha raccontato che, quando si parte dalla Libia, i bambini indossano il vestito migliore, possibilmente rosso perché in mare è il colore che si vede meglio. E se stiamo affogando voglio che prima vedano mia figlia. La cosa che mi pesa non è rispondere giuridicamente o penalmente della Mare Jonio, mi pesa di più la responsabilità morale che fa sì che, da quando siamo partiti lo scorso 3 ottobre, non ho più spento il telefono, perché di notte arrivano tutti i messaggi di avviso ai naviganti. E ti chiedi, saremo in grado di salvare quelle persone? Ed è una risposta che non avrai mai”.
“Fino a qualche mese fa eravamo inerti davanti a quell’onda nera che stava sommergendo tutto. Oggi la Mare Jonio è anche uno strumento utilizzato per rimettere in moto la voglia di re incontrarsi. Sinora abbiamo partecipato a quasi 100 incontri con persone che non vogliono rimanere inattive di fronte a quello che sta succedendo”.
“Con Mediterranea abbiamo la possibilità di agire. Il problema oggi è che dobbiamo fare cose eccezionali per essere “normali”. Le cose le fai perché pensi che siano giuste, per me era giusto essere là. In questo momento la Mare Jonio si trova in cantiere a Palermo per una serie di lavori necessari alla ripartenza prevista entro 10-15 giorni, perché non è possibile lasciare sguarnito il Mediterraneo”.
Ad aprile è previsto un incontro nazionale con tutti quelli che vogliono salire a bordo della Mare Jonio, per discutere assieme come andare avanti, cosa deve diventare Mediterranea. “Inviteremo anche tutto il mondo della cooperazione sociale, che sa da decenni come lavorare assieme. Perché o ci si salva assieme o affoghiamo tutti. Sulla Mare Jonio c’è tanto spazio che spero sia riempito anche dalla cooperazione”.
Franco Fullin ha ricordato come lo scorso autunno sia stato approvato dal Governo il Decreto Sicurezza, che prevede un nuovo schema di capitolato d’appalto rispetto all’accoglienza. “Va detto che solo il 30% dei posti in accoglienza su scala nazionale è ricoperto dalla cooperazione sociale, un tanto per rispondere alla vulgata sul presunto business delle cooperative sociali in merito all’accoglienza. Quel Decreto è stato un forte attacco al modello di accoglienza diffuso sul nostro territorio”.
“Come cooperative sociali abbiamo lavorato intensamente al nuovo schema delle gare d’appalto, confrontandoci tra di noi soprattutto dal punto di vista tecnico, dal momento che sono state introdotte molte voci rispetto alle spese e anche molto dettagliate. Abbiamo rilevato una serie di errori macroscopici, ad esempio non sono previsti i costi sulla sicurezza, e così abbiamo deciso di contestare il bando recentemente emesso dalla Prefettura di Udine che si basa su quello predisposto dal Ministero dell’Interno. Abbiamo chiesto l’annullamento del bando ma non abbiamo ricevuto risposta, abbiamo così fatto ricorso al Tar del Lazio. L’udienza è stata fissata il 26 febbraio anche se la gara scade il giorno precedente”.
“Quando ci siamo resi conto di questa deriva nella narrazione dell’accoglienza, ci siamo chiesti cosa avessimo seminato in questi 15 anni – ha sostenuto Andrea Barachino -, da dove arrivassero tutte queste reazioni d’odio, anche perché, quando iniziammo a fare accoglienza, chi fossero i richiedenti asilo non lo sapeva nessuno. Il nostro approccio è sempre stato molto tecnico, però nell’ultimo periodo ci stiamo interrogando su quanto siamo stati capaci di capire le paure degli altri cittadini parimenti svantaggiati. Forse questo è un salto che non siamo stati capaci di affrontare”.
“Abbiamo certamente avuto difficoltà a narrare quello che facciamo, tanto che siamo stati costretti a quasi banalizzare cosa sia un asilo politico in un ‘sono quelli che scappano dalla guerra’. Ma non è questo. Siamo tornati indietro a prima dell’anno zero. Quell’orizzonte condiviso che credevamo di aver costruito è stato distrutto e oggi ci troviamo nella condizione di dover ridiscutere quell’approccio e riflettere sull’advocacy”.
Pierluigi Di Piazza ha affrontato la questione culturale retrostante il discorso sull’accoglienza. “Le persone che affrontano il viaggio attraverso il Mar Mediterraneo vengono perché sono in pericolo di vita. Di queste migrazioni viene però offerta una visione distorta che viene amplificata ad esempio sui numeri”.
“Le migrazioni ci rivelano come sta il mondo, come stanno loro e come stiamo noi. Come mai una parte del nostro Paese conferma una visione politica contraria all’accoglienza, come mai siamo arrivati a questa situazione? La domanda fondamentale è quella su chi oggi alimenta e diffonde una cultura di paura rispetto all’accoglienza di persone identificate come nemiche della società. E il Decreto Sicurezza non fa che confermare questa tendenza. Il nodo da sciogliere è come disinnescare questo sistema, se anche la Regione con enfasi si vanta di come ogni piccolo Comune riceverà denaro per aumentare la sicurezza. Lontano da noi non ci interessano più, e ciò è disumano perché torneranno nei lager della Libia”.
“E allora penso alla Carnia da cui vengo. Perché non portare il modello Riace nelle nostre montagne disabitate, perché non pensare con la cooperazione sociale ad un progetto Riace sulle montagne spopolate della Carnia, del Pordenonese, delle Valli del Natisone. E non solo per ripopolare quei luoghi”.
Dopo aver riconosciuto il ruolo della cooperazione sociale, nata in questa regione dal fermento culturale e sociale scaturito prima e dopo la promulgazione della Legge Basaglia e la chiusura dei manicomi, Enzo Gasparutti ha evidenziato che “esiste anche una cooperazione non sociale che di sociale ha parecchio, e che vede tra le sue fila circa il 20% di persone immigrate provenienti da almeno 30 Paesi diversi”. Ha ricordato le battaglie portate avanti da Legacoop Fvg per il rispetto dei contratti di lavoro e contro la cooperazione spuria, evidenziando come l’universo cooperativo sia molto articolato e da valorizzare. Per Gasparutti “la cooperazione deve rimanere ancorata ai propri obiettivi morali e valoriali se vuole dare senso alla propria esistenza”. Da qui la disponibilità di Legacoop e dell’Aci (Alleanza Cooperativa Italiana) regionali ad affrontare i progetti Mediterranea e Riace in Fvg.
Gianfranco Schiavone si occupa di accoglienza e diritto d’asilo dal 1992. “Quello all’accoglienza è un attacco furibondo che in molti non hanno capito. La lotta alle Ong che fanno salvataggi in mare e la lotta a chi fa accoglienza in Italia sono due facce della stessa medaglia, e fanno parte dello stesso pacchetto. Il vero obiettivo dell’attuale esecutivo è gestire l’immigrazione come una continua macchina della paura e del disordine, con immigrati accolti a bassa soglia per i quali si prospetta un futuro in strada ed un verosimile ingresso nel lavoro nero. Insomma, una macchina che si autoalimenta”.
“Ciò che è sicuramente mancato è stata una risposta culturale omogenea da parte degli enti che fanno accoglienza, tanto che oggi ci troviamo di fronte a una de-strutturazione dell’intero sistema il cui obiettivo è mantenere una situazione emergenziale. L’eliminazione progressiva dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), gli standard nell’accoglienza molto bassi, le strutture degradate, la chiusura dei corsi di italiano, conducono alla conclusione che alla battaglia legale non c’è alternativa”.
“Per capire quale sia la partita politica e culturale sull’emigrazione – ha affermato Gian Luigi Bettoli -, bisogna ricordare innanzitutto che la storia del Friuli Venezia Giulia è la storia plurisecolare di un popolo di emigranti, che hanno dovuto passare tutte le fasi, dalla clandestinità al lavoro irregolare, dalle profuganze a causa delle guerra, fino alla creazione (a Trieste) di un grande polo di sviluppo, costruito dai migranti di regioni vicine e lontane. L’amnesia sul nostro passato produce i mostri dell’intolleranza e del razzismo contemporanei.
E tutto ciò a fronte di modalità di accoglienza arretrate, basate sulla concezione di un’emergenza che non ha senso: la popolazione mondiale si è sempre spostata, e lo slogan “aiutiamoli a casa loro” è irrazionale, se pensiamo agli effetti sconvolgenti di almeno mezzo millennio di colonialismo, tratta degli schiavi e sfruttamento delle risorse dei continenti extraeuropei. “Aiutiamoli a casa loro” significa solamente pretendere di continuare con un mondo squilibrato, destinato a veder aggravati sia i conflitti tra gli umani che la distruzione della natura, come dimostrano i catastrofici effetti prodotti dal cambio climatico prodotto dall’impatto antropico.
Pensiamo che l’accoglienza debba essere un modello civile, alla pari di quanto accade negli altri Paesi europei. Una persona deve poter trovare casa, istruzione, lavoro, il welfare per la propria famiglia, un sistema dignitoso che eviti la creazione di ghetti. In qualità di associazioni cooperative abbiamo sostenuto gli enti gestori del percorso di accoglienza di Udine, che la settimana scorsa, primi in Italia, hanno presentato ricorso al Tar del Lazio per mettere in discussione la legalità del Decreto Salvini”.
Ufficio stampa Cooperativa Itaca