Abbiamo da poco rilanciato il “rapporto sulle misure contro le ONG” di Amnesty International.
Sono certamente da sottoscrivere le parole di Kumi Naidoo, segretario generale di Amnesty International: “A New York nel dicembre 2018, in occasione del ventesimo anniversario della Dichiarazione Onu sui difensori dei diritti umani, i leader del mondo hanno ribadito il loro impegno a creare un ambiente sicuro per i difensori dei diritti umani. Ora devono tradurre quell’impegno in realtà”.
Però, come tutte le medaglie, anche il mondo delle ONG ha il suo rovescio. Basti citare quella che da un mese primeggia nella ribalta internazionale: USAID, con i suoi “aiuti umanitari” al Venezuela, “umanitari e neutrali” al punto che sia l’ONU che la Croce Rossa si sono ufficialmente dissociate. A proposito di Venezuela, ecco un altro ‘campione dei diritti umani’ al guinzaglio di Washington: Human Rights Watch.
L’elenco delle ONG farlocche è molto lungo: dalla A (per esempio Avaaz) alla Zeta (per esempio ZOA – Zionist Organization of America). Sempre restando alla lettera A, neppure Amnesty International è così vergine, sia in alcune sue branche regionali sia negli affari interni. Così va a finire che, passando alla lettera O, non solo si rizzano i capelli pensando alla Open Society di Soros, ma cresce la diffidenza verso tutte le Ong in generale…
Allora che facciamo? Buttiamo il bambino con l’acqua sporca?
Certo che no! Ma se le ONG non fanno pulizia al loro interno, poi non si lamentino se un numero crescente di autorità nazionali e internazionali sono meno accondiscendenti nei loro confronti, e se tanti governi temono che le ONG, soprattutto se finanziate dall’estero, vengano strumentalizzate per interessi geo-politici.
E chi può fare pulizia? Solo le persone non compromesse che lavorano all’interno delle ONG. Ma moltissime di quelle persone sono completamente all’oscuro di quello che si pianifica ai vertici. E gran parte dei restanti, pur sapendo almeno in parte, si adattano a compromessi sempre meno onorevoli per se stessi e per tutti.
Infine c’è da considerare che per le ONG, come per ogni altra organizzazione, vale la “legge della funivia” illustrata nel dialogo seguente:
- Interlocutore X: “Perché il cavo portante di una funivia è così grosso?”
- Interlocutore Y: “Perché deve sostenere due cabine capaci di portare un centinaio di persone ciascuna”.
Interlocutore X: “Quanto pesano due cabine cariche di passeggeri, in percentuale rispetto all’intero impianto, a cominciare dal cavo portante?”. - Interlocutore Y: “Immagino… che sia molto più del 50%…”
- Interlocutore X: “Invece no. Pesano si e no il 20%. Il cavo portante è così grosso perché, prima e più ancora che cabine e passeggeri, deve sostenere il peso proprio! Fuor di metafora: più le ONG sono grosse, più alta è la percentuale del loro budget necessaria per sostenere se stesse, e più devono spendere/compromettersi per lavorare all’estero”.
- Interlocutore Y: “Allora per le ONG vale più che mai la regola ‘piccolo è bello’ ”.
- Interlocutore X: “Già, ma le ONG piccole non hanno la forza di contrastare politiche discriminatorie e antidemocratiche… e non vogliamo qui entrare nel merito della “democraticità” con cui viene gestita la stragrande maggioranza delle ONG, piccole e grandi”.
Ecco una seria contraddizione in termini, che è maggiormente insidiosa proprio nei paesi “democratici”: se un governo sedicente “democratico”, ivi compresi tutti quelli del “democraticissimo occidente”, non si comporta bene, i cittadini dovrebbero agire attraverso i canali istituzionali appositamente predisposti. Se, invece, attivano il percorso non-governativo, con ciò stesso indeboliscono i canali istituzionali e l’intero impianto democratico di quella comunità.
Conclusione un po’ sconcertante: l’ONG ideale è quella di cui non c’è bisogno?