Accoglienza, religione, rivolte di gilet gialli, uso legittimo della violenza, politica internazionale, i limiti delle libertà e quelli della legge, sono solo alcuni dei temi dell’attualità politica che creano più grattacapi agli insegnanti. Parlare in classe d’attualità è tanto importante quanto periglioso.
Il timore di fare proselitismo sembra cozzare con la necessaria missione di illuminare il cammino dello spirito critico di ogni studente.
Discutendo coi colleghi, l’imbarazzo di essere tacciati di “fare politica” a scuola alimenta un distacco crescente sui temi chiave dell’attualità riverberandosi a cascata sugli studenti che vengono educati alla neutralità e quindi all’indifferenza. Di generazione in generazione aumentano i disaffezionati della storia e della politica, con buona pace per ogni speranza di cambiamento.
Emblematico esempio è il modo in cui vengono trattate oggi le ideologie del Novecento.
L’atarassia politica derivante dalla ideologia della neutralità è quella che viene predicata sia dalla scuola che si preoccupa più di demonizzare ed equiparare le ideologie antiliberali, che di parlare della storia politica dei nostri paesi in maniera approfondita, tanto che si dice che i professori non insegnino più nulla dalla seconda guerra mondiale in poi.
Queste famose ideologie rimangono presenti in maniera latente ma non investono più il dibattito pubblico. Eppure una di queste ideologie attraverso questa neutralità e questa indifferenza verso tutto ciò che è pubblico e quindi politico, può silenziosamente realizzare il proprio progetto.
L’accusa di fare politica che sia a scuola, in piazza, in Tv, o a tavola, è infatti strumentale al desiderio di neutralità della teoria politico-economica dominante.
Il neoliberismo desidera neutralità, linearità, fluidità, uniformando regole. Qualsiasi costrutto collettivo che possa avere coscienza di sé deve essere distrutto per lasciare che la fredda razionalità del mercato possa garantire il “benessere”.
Questa neutralità crea un vuoto gigantesco, che riempito dalla spettacolarizzazione del dibattito da bar portato avanti nelle tribune politiche dei talk-show o nei flussi di twitter, diventa esso stesso divisivo e polemico. Si tratta di quel vuoto che ha portato i frutti del cosiddetto populismo che stupisce da qualche anno col Brexit, con l’elezione di Trump, dei pentaleghisti e di Bolsonaro.
In questo vuoto la società si radicalizza, non trovando né codici comuni di riferimento, né luoghi adatti ad un dibattito dialettico e costruttivo: si ripetono così i monologhi dei talk e si scimmiottano le proprie mascotte in Tv o sul social.
Questo è il vuoto che separa il popolo dalle élite, e che separa geograficamente l’America profonda dalla Grande mela, le città, contrarie alla Brexit dalle campagne ad essa favorevoli, e all’interno delle città, i centri dalle periferie, i quartieri riabilitati dei bobo (radical-chic) dai ronds-points (rotatorie) dei gilet gialli.
Lo stesso meccanismo che si è verificato coi gillets gialli in politica, nella laica Francia si era già verificato sul fronte della religione.
Nel paese della Rivoluzione un’interpretazione distorta della laicità ha portato le comunità educative ad abbandonare l’insegnamento della religione in tutte le sue forme e ad un atteggiamento troppo timido nell’affrontare i dibattiti della convivenza. Questo prurito nell’affrontare audacemente la questione del vivere insieme, della cittadinanza, della presenza dei segni religiosi o dei luoghi di culto nello spazio pubblico viene dall’impreparazione personale del corpo insegnanti nonché della cittadinanza stessa.
Da qui la necessità da parte del Ministero dell’Istruzione francese, attraverso il Rapport Debray nel 2002, qualche mese dopo dell’attentato alle Torri Gemelle, di affermare la necessità di insegnare il “fatto religioso” nella scuola laica. Debray denunciava che questa “incultura religiosa” provoca una perdita di codici di riconoscimento, di qualsiasi sapere e discernimento.
Potrebbe non essere un caso quindi che l’interpretazione francese della laicità, volendo imporre la neutralità nello spazio pubblico, abbia provocato un risorgimento identitario dello spazio privato e delle confessioni religiose, testimoniato dalle leggi che hanno imposto il divieto di portare il velo integrale nello spazio pubblico e da quella che vietano i segni ostentatori a scuola. Così come la minore problematicità dei dibattiti sull’integrazione fino ad ora portati avanti in Italia potrebbe essere imputabile ad una versione della laicità ammorbidita da Patti Lateranensi e dagli Accordi di Palazzo Madama, oltre che ad una minore presenza storica di popolazioni culturalmente diverse dal vecchio monolite cattolico.
In sintesi, decenni di neutralità nell’ambito della religione hanno provocato la radicalizzazione di alcune frange della società francese, e decenni di politiche liberiste, mortificando le lotte sociali, stanno portando ad una radicalizzazione apolitica della società che sta sostituendo le classi dirigenti passate.
Questa incultura politica è alimentata a livello sistemico da una classe dirigente e politica che fa di tutto per farsi odiare e a livello mediatico da una formalista ed ipocrita parcondicio. In ambito associativo vengono difesi segmenti minuscoli di lotta e di rivendicazione, e sostenuti a livello europeo tutte quelle rivendicazioni socialmente rilevanti senza mai intaccare le lotte economiche.
Disilluso sulle possibilità di un cambiamento attraverso i vecchi partiti e neutralizzata la sua capacità aggregativa, il cittadino francese o italiano non conosce più il suo ruolo e diventa fruitore e spettatore di una partita giocata da schieramenti binari.
Questa neutralità politica coincide con una assoluta fedeltà all’aderenza all’ideologia capitalista. Essa ha quindi trasformato il voto in like, la militanza politica in tifo, la tessera di partito in tessera fidelizzante, la partecipazione in obbedienza all’algoritmo che fa di ogni persona-avatar, la cassa di risonanza di un pensiero politico del personaggio seguito su Facebook o Twitter.
Da tempo le nostre comunità predicano l’atarassia politica contribuendo a spegnere apparentemente i focolari di qualsiasi rivendicazione economica, sociale o identitaria.
Nelle scuole, nelle famiglie, tra amici, parlare di politica fa paura, è stato divisivo, antiestetico. In ognuno di questi ambienti si evita di sporcarsi le mani con la politica il cui significato ha progressivamente preso un’accezione negativa e pestifera, che corrompe gli animi di chi vi si avvicina e che viene definita come la subdola arte del governare e non come analisi dei rapporti di forza in una società.
Quantomeno quegli insegnanti che hanno una buona considerazione del proprio lavoro e del loro ruolo politico, ma non per questo partitico, cercano di affrontare il dibattito in maniera discreta, cercando di accontentarsi di dare degli strumenti di analisi alle studentesse e agli studenti per compiere le proprie scelte in maniera indipendente. Lo sviluppo del senso critico permette di ragionare con la propria testa e comprendere il mondo circostante.
Nemmeno questo a breve sarà più sufficiente. Di fronte all’attuale equiparazione della sana ignoranza all’inutile competenza, educare è un atto politico e sta diventando sempre di più un atto di resistenza.
Probabilmente persino questi rari tipi di insegnanti dovranno passare ad un’azione didattica, molto meno neutra e rivendicare senza alibi il ruolo di formatori di menti, di avanguardia per una resistenza umana contro la disumanizzante politica dell’odio o del libero mercato.