Conosciamo la nostra Costituzione? Ne condividiamo i suoi contenuti? Un esperimento sociale è stato compiuto a Trapani prima dell’avvio dei lavori di un’assemblea cittadina intitolata “Dal Reddito di Cittadinanza al Reddito di Base”. In particolare, è stato somministrato un questionario con la possibilità di scegliere tra diverse risposte chiuse.
Il campione individuato era certamente piccolo statisticamente, 20 soggetti, ma può permettere delle sommarie valutazioni.
Non sorprende il fatto che, secondo il 65% degli intervistati (13 su 20), lo Stato possa legiferare anche in contrasto «alle leggi dell’Unione Europea e degli obblighi internazionali». Sono questi i cittadini che sostengono il “sovranismo” populista al governo. Peccato che l’articolo 117 della nostra Costituzione dica assolutamente l’opposto. Incoraggia, tuttavia, che almeno un residuo 35% condivida il testo della Carta costituzionale.
Il 25% dei rispondenti (5 su 20) non riconosce che lo studio, la ricerca, il lavoro domestico, il lavoro di cura, il volontariato, siano attività che possano concorrere al «progresso materiale o spirituale della Società». Solo l’impiego “ufficialmente” riconosciuto come lavoro, ovvero quello retribuito – a loro parere – risponde al «dovere» previsto dall’art. 4 della Costituzione.
Conseguentemente questo 25% ritiene «assurdo» che, ad esempio, si debba riconoscere e valorizzare il lavoro casalingo e di cura con il riconoscimento di un salario. Data la composizione del campione – sbilanciato a favore di socie del Moica – il dato reale è molto più pesante, potrebbe approssimarsi al doppio.
A chiarire, per chi ne avesse dubbi, la «ampia accezione» secondo la quale i Padri Costituenti intendessero il “lavoro”, interviene l’originale “Relazione” al Progetto di Costituzione: «il lavoro non si esplica soltanto nelle sue forme materiali, ma anche in quelle spirituali e morali che contribuiscono allo sviluppo della società. È lavoratore lo studioso ed il missionario».
Lo stesso articolo 35 della Costituzione, quando parla di tutela del lavoro, lo intende «in tutte le sue forme». E la pronuncia n. 48 del 19 gennaio 1995 della Corte Costituzionale sottolinea come «il lavoro effettuato all’interno della famiglia, per il suo valore sociale ed anche economico, può essere ricompreso […], nella tutela che l’art. 35 Costituzione assicura al lavoro “in tutte le sue forme”» in quanto si tratta di una «attività lavorativa» dalla quale ne discendono «indiscutibili vantaggi per l’intera collettività».
Tra le risposte al sondaggio, lascia riflettere anche quel 10% (2 su 20) che ha sostenuto l’equiparazione del lavoro casalingo all’impiego retribuito salvo poi affermare che, comunque, l’attività domestica non può essere retribuita perché costerebbe «troppo» per lo Stato.
L’art. 4 della Costituzione e l’art. 23 della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo sostengono il diritto alla «scelta» del lavoro da parte del prestatore. Un Diritto sconosciuto al 15% (3 su 20) dei rispondenti che hanno affermato, nella propria risposta, che il lavoratore «deve accettare quel che offre il Mercato». Il pessimismo, o il pragmatismo, pervadono gli altri soggetti che han partecipato al sondaggio. Otto su 20 (il 40%), pur riconoscendo il diritto di «scelta», ammettono che occorre accettare qualunque condizione lavorativa pur di «pensare ai bisogni materiali della famiglia».
Il sondaggio si chiudeva con una domanda sull’art. 36 della nostra Costituzione che sostiene il diritto a godere di un reddito «sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Per il 10% degli intervistati (2 su 20), solo chi “lavora” (chiaramente inteso chi ha un impiego retribuito) ha diritto a questa “libertà e dignità”.
Come autore e somministratore del questionario, ritengo che probabilmente un ripasso di Costituzione, di Educazione Civica, toccherebbe farlo a molti; per poter così obbedire ai doveri in essa contenuti e poter, con piena coscienza, «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».