C’è una cosa che non capisco e che non mi fa dormire.
Siamo di fronte ad un bivio fondamentale per il futuro dell’Europa e di noi tutti.
Al rigurgito nazionalista e fascista che avanza in tanti Paesi dell’Unione, fa eco la totale, deprimente e imbarazzante incapacità dell’establishment europeo di reagire con risposte condivise alle sfide comuni e alle difficoltà e sofferenze di fasce sempre più ampie delle nostre società. Anzi, è bene chiarirlo: non è che ci siamo svegliati un giorno ed erano tornati i fascisti. Sono proprio le folli politiche economiche e sociali di questi anni che hanno aumentato a dismisura le diseguaglianze, aprendo le porte all’ascesa dei nazionalisti.
Anche in Italia, dove c’è chi ha fatto della crudeltà una linea di governo, scegliendo un nemico al giorno su cui scaricare la retorica d’odio, lasciando invece agire indisturbati i veri responsabili della crisi. E creando così un clima intollerabile di violenza e aggressività che dilania il tessuto sociale.
La gravità della situazione in Europa e in Italia ci chiama tutti ad un’enorme responsabilità.
Eppure, a fronte di tutto questo, a quattro mesi da un voto cruciale ancora non c’è in campo il progetto di alternativa di cui in tanti sentiamo il bisogno.
Ciò che non convince dei progetti messi in campo finora, è che anziché fare lo sforzo creativo di immaginare il nuovo, coniugando unità e coerenza, vogliono cristallizzare le contraddizioni che hanno prodotto il disastro attuale.
Ed è così che qualcuno racconta che la sfida sarà tra europeisti e antieuropeisti. Ma è una lettura semplicistica e fuorviante. Sarebbe troppo facile nascondersi tra gli europeisti anche per coloro che hanno sulle spalle la responsabilità politica degli errori devastanti di questi anni, dall’austerità alla rincorsa delle destre contro i migranti. Non è quindi di un vago appello all’unità di tutti gli europeisti contro la minaccia nazionalista che abbiamo bisogno. Né di progetti che tengano insieme tutto e il contrario di tutto, compresi i protagonisti di quegli errori che peraltro non hanno dato alcun segno di autocritica e di discontinuità.
Ma nemmeno, dall’altra parte, possiamo spingere lo sforzo unitario al punto di cercare mediazioni introvabili con chi vuole il ritorno ai confini nazionali, anche a sinistra.
Non abbiamo bisogno di caricarci delle ambiguità che hanno messo la sinistra al margine in questi anni in Europa, non abbiamo bisogno di due o tre progetti ambigui e incoerenti. Ce ne basterebbe almeno uno, che sia coerente. Fresco nel linguaggio, innovativo nei metodi, nei contenuti, e anche nei volti.
Abbiamo bisogno di chiarezza, di visione e di coraggio. Abbiamo bisogno di un progetto senza ambiguità, che si collochi in quel terzo spazio tra gli unici due confini che dobbiamo riconoscere: né con chi ha avallato le politiche dell’austerità, né con chi predica il ritorno ai confini nazionali, a destra come a sinistra. Establishment e nazionalisti sono due facce della stessa medaglia che si autoalimentano. Per questo da anni insisto sulla necessità di costruire un fronte progressista ed ecologista europeo, che si ponga con forza in alternativa agli uni e agli altri, a partire dalle battaglie che già condividiamo e da quelle che al Parlamento europeo abbiamo vinto insieme.
Le maggiori sfide su cui ci giochiamo il futuro delle nuove generazioni sono tutte europee e globali. Vale per quella migratoria, su cui servono risposte di solidarietà e condivisione delle responsabilità, vale per quella climatica cui si lega la necessaria conversione ecologica, vale anche per la lotta alle diseguaglianze, con la guerra all’evasione ed elusione fiscale delle multinazionali ed una forte dimensione sociale da dare all’Unione. La vera sfida, per ridare sovranità ai cittadini, è farlo al livello più adatto ad affrontare queste sfide, senza rinunciare all’Unione, ma democratizzandone profondamente l’impianto.
Chi la pensa allo stesso modo su quali risposte concrete dare a queste grandi sfide, ha oggi la responsabilità di fare questo sforzo. Perché su queste saremmo in grado già domani mattina di costruire insieme a tante e tanti che si stanno mobilitando spontaneamente in tutto il Paese una visione comune del futuro dell’Unione e dell’Italia. Facciamolo.
Non dobbiamo partire da zero, ma dai tanti punti d’incontro tra i fondamentali contributi messi in campo sino ad oggi: dalla giusta intuizione di costruire un progetto transnazionale di democratizzazione dell’UE come quello tracciato nel programma di Diem25, alle proposte dei Verdi europei che dimostrano come la transizione ecologica sia essenziale per tenere insieme sostenibilità, occupazione e giustizia sociale. Dalle rivendicazioni dei movimenti femministi e per la parità di genere, a quelle dei movimenti per la giustizia ambientale. Dalle concrete esperienze municipaliste e di coalizioni civiche di riscatto dei beni comuni in tante città d’Europa e d’Italia, all’azione di resistenza delle reti e organizzazioni che rispondono ai bisogni delle persone, così come le reti della buona accoglienza laiche e di ispirazione religiosa. Dalle elaborazioni dei federalisti europei, alle cento proposte per l’uguaglianza sostenibile di Barca, Giovannini e molti altri. Un patrimonio di soluzioni e pratiche che già tratteggiano una visione comune su che tipo di società vogliamo costruire, basata sull’uguaglianza e la parità di genere, sulla giustizia sociale e la sostenibilità, sull’estensione dei diritti e la redistribuzione di ricchezze e possibilità.
Ho passato gli ultimi otto mesi a confrontarmi con tutti gli interlocutori con cui condividiamo queste battaglie cruciali, e non vedo nessuna ragione politica per non provare a costruire un progetto comune. E se le ragioni non sono politiche, legate ai due confini di coerenza che indicavo prima, non sono ragioni che ci possiamo permettere in una situazione come questa.
Perché se aspettiamo di starci tutti simpatici, a sinistra, questa cosa non la faremo mai. E finire con due o tre liste diverse che diranno le stesse cose sarebbe da irresponsabili.
Mettiamo da parte frammentazioni, personalismi e antipatie, nella consapevolezza del fatto che nessuno di noi, o delle nostre organizzazioni, è autosufficiente. E proviamo a farlo evitando gli errori del passato, perché le mere sommatorie di sigle e di gruppi dirigenti non parlano più a nessuno, così come i progetti personali.
Bisogna provare con umiltà a ricostruire i fili che sono andati spezzati con ciò che si muove già nella società, attorno a una visione comune e proposte concrete.
L’unico segnale che dà speranza in questa fase terribile è che molte più persone, reti e realtà si stanno mobilitando spontaneamente: sentono il bisogno di reagire in maniera collettiva, riempiono le piazze e partecipano gli incontri come non si vedeva da tempo, cercando anche reciproco conforto, riscoprendo la straordinaria forza della solidarietà.
Ho incontrato tante e tanti di voi in questi mesi, in questi anni di cammino, e mi pare che questa preoccupazione e quest’urgenza siano condivise. Il momento di dirlo è ora, perché le cose stanno andando in un’altra direzione, la politica da sola si sta incartando e la posta in gioco è altissima e ci riguarda tutti. Non rassegniamoci alle ambiguità e contraddizioni, possiamo davvero dare corpo a quell’alternativa che tenga insieme unità e coerenza e ci faccia ricominciare a respirare ed a sperare.