Dopo il piano Merida, cui è succeduto il piano Frontiera sud – entrambi con una chiara intenzione di securitizzazione – la questione migratoria nella regione si è alquanto ingarbugliata. Secondo il paradigma della securitizzazione la migrazione costituisce un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato. Entrambi i piani si configurano come accordi di cooperazione tra il Messico e gli Stati Uniti, nati dall’esigenza di combattere il narcotraffico e la migrazione clandestina. Al piano Merida, creato nel 2007 durante la presidenza di Felipe Calderon, è seguito nel 2014 il piano Frontiera Sud, che prevedeva all’incirca le stesse misure di controllo della frontiera meridionale e che fu stipulato tra l’ultimo presidente messicano, Peña Nieto, e il presidente statunitense Obama.
Infatti, durante il periodo di passaggio del testimone tra il governo di Peña Nieto (presidente dal 2102 al 2018) e il nuovo governo di López Obrador (in carica fino al 2024) – che, ricordiamolo, interrompe l’annosa successione al potere del Partito rivoluzionario istituzionale (PRI), il partito conservatore che ha governato il paese quasi senza interruzione dal 1929 – la politica migratoria messicana è stata un terreno accidentato di conferme e smentite.
Dopo tre candidature, Manuel López Obrador è riuscito finalmente a vincere le ultime elezioni, portando al potere il suo partito, il Movimento di rigenerazione nazionale, meglio conosciuto come MORENA. Una svolta a sinistra per il paese, a giudicare dalle premesse. Per ora le posizioni progressiste sono state conciliate con le esigenze del governo dei vicini USA, risultando poco chiare e, a volte, addirittura contraddittorie, come nel caso delle politiche migratorie che stiamo analizzando.
La prima palla lanciata sul campo è stata il piano “Messico: terzo paese sicuro” sul tavolo di gioco del nuovo accordo economico tra USA, Messico e Canada, l’USMCA (United States- Mexico-Canada Agreement), che soppianta il trattato di libero scambio NAFTA (North American Free Trade Agreement). La clausola che si doveva inserire riguardava la categoria di terzo paese sicuro, la quale implica che i centroamericani richiedenti asilo in USA vengano spostati in Messico, dove potranno inoltrare la loro richiesta alle competenti autorità messicane, in questo caso la COMAR (Comision Mexicana de Ayuda a los Refugiados). Non è tardata la risposta scandalizzata della società civile messicana, secondo cui il Messico non può considerarsi un paese sicuro per i suoi stessi cittadini, men che meno per i migranti, che spesso vivono una condizione di maggior vulnerabilità. Molte organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International, hanno denunciato violazioni anche gravi da parte sia di gruppi criminali che delle stesse autorità nei confronti delle persone in viaggio.
Oltre a ciò, il Comitato esecutivo dell’Alto commissionato per i rifugiati (UNHCR) ha stabilito alcuni standard minimi per definire un paese come sicuro. Tra i vari indicatori c’è quello relativo agli obblighi di non rimpatrio (non-refoulement) da parte degli Stati segnatari della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951 e al suo Protocollo del 1967, che definisce i diritti dei singoli che hanno ottenuto l’asilo e le responsabilità delle nazioni che garantiscono l’asilo medesimo.
Le statistiche della COMAR del 2017 mostrano un alto indice di abbandono nelle richieste di asilo dirette alle autorità messicane. Può richiedere l’asilo chi, per un fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trovi fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non possa o non voglia, a causa di tale timore, avvalersi della protezione del proprio Paese. La situazione complessiva giustifica la richiesta d’asilo nel caso delle popolazioni in fuga da condizioni di estrema violenza – come quelle in atto in Guatemala, El Salvador, Honduras dove sono presenti le maras – e da un altro paese come il Nicaragua, che registra tradizionalmente una significativa emigrazione (legale e illegale) verso gli Stati Uniti, cui si sono ora aggiunti flussi in uscita verso il vicino Costarica a causa delle recenti violenze.
I motivi per cui viene contestata al Messico la condizione di paese sicuro risiedono tanto nell’insicurezza, nelle vulnerabilità e nei rischi a cui sono sottoposti i migranti, quanto, più specificamente, nelle leggi che non supportano il cambio di residenza della persona migrante. In Messico, infatti, è obbligatorio risiedere nella città in cui si arriva e si inizia l’iter della richiesta di asilo, ma spesso le persone migranti vogliono continuare il cammino e, cambiando di residenza, sono costretti ad abbandonare il processo già avviato, entrando quindi nell’illegalità, condizione che li rende ancor più vulnerabili. Inoltre, l’elevatissimo numero di pratiche pendenti è dovuto anche al terremoto dello scorso anno, che ha obbligato la COMAR ad un cambio di sede e ad interrompere il lavoro. Ma a parte questi fattori congiunturali resta aperta e irrisolta la grande questione: il Messico è davvero un paese che può garantire pienamente i diritti umani di una persona migrante?
Senza dubbio, la questione del terzo paese sicuro si inquadra chiaramente in una strategia di esternalizzazione dei controlli delle frontiere. Quella dell’esternalizzazione delle frontiere e della responsabilità internazionale non è certo un fenomeno nuovo: basti pensare agli accordi bilaterali tra l’Unione Europea e paesi come la Turchia e la Libia come tasselli di un governo esterno delle migrazioni. Secondo l’antropologa Laura Carlsen e l’avvocato Aude Belet, “quando un paese riconosce un altro come un paese sicuro, fa riferimento a un accordo che consente al primo paese di inviare i richiedenti asilo che arrivano nel proprio territorio all’altro paese, in quanto quest’ultimo è considerato sicuro per i richiedenti asilo e i rifugiati. Ovviamente, si tratta di un accordo che comporta un risarcimento finanziario per il paese che accetta di prendersi cura dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Questo meccanismo è utilizzato in diversi paesi del primo mondo che esternalizzano i loro confini, perché il riconoscimento di un paese terzo sicuro consente alle persone in fuga di non raggiungere il loro territorio. Di solito è giustificato con l’argomento che, se le persone fuggono, non dovrebbero andare oltre il primo paese sicuro incontrato durante il loro cammino” (Belet e Carlsen, 2018).
Pertanto, secondo la logica del terzo paese sicuro, un accordo tra il Messico e gli Stati Uniti in questo senso dichiarerebbe il primo paese sicuro, con la conseguenza che le persone provenienti da paesi terzi (centroamericani) che chiedono asilo alla frontiera con gli Stati Uniti verrebbero sistematicamente respinte e costrette a chiedere rifugio in Messico. Queste misure sono solitamente giustificate dalla pretesa di garantire la sicurezza dello Stato ricevente e quella della persona del migrante: riducendo le pressioni migratorie, impedendo ai migranti di finire nelle mani di trafficanti senza scrupoli e creando un sistema più ordinato per la gestione dei flussi migratori. Tuttavia, un’altra prospettiva vede queste misure come violazioni del diritto internazionale e delle norme stabilite per la protezione dei migranti. E nonostante diversi leader politici, primo fra tutti il presidente Donald Trump, siano fermamente convinti che queste misure sono o saranno implementate nel pieno rispetto del diritto internazionale, ci sono ampi margini di scetticismo. Diversi studi condotti in Africa, Centro America e Asia, tra cui citiamo il compendio curato da Achilli, Sanchez e Zhang lo scorso anno, hanno dimostrato come il processo di securitizzazione e l’esternalizzazione dei controlli di frontiera nel Sud del mondo aumenta la dipendenza dei migranti da gruppi di trafficanti. E anche nel caso in cui si riuscisse realmente ad impedire ai migranti di raggiungere la destinazione, ci si domanda se questo risultato finirebbe per beneficiarli o aggravare la loro situazione.
Negli ultimi anni differenti fonti attendibili, tra cui alcuni report di Amnesty International, hanno riportato gli innumerevoli abusi e violenze perpetrate ai danni dei migranti nei paesi di transito sia da parte delle autorità locali che di gruppi criminali legati al narcotraffico. Il Messico non fa eccezione, basti pensare al famoso caso dei 72 migranti ritrovati in una fossa nella città di San Fernando, nello stato di Tamaulipas, vittime del cartello del Pacifico del sud, un importante gruppo di narcotrafficanti.
Con l’installarsi del nuovo governo di Manuel López Obrador si è iniziato a vociferare (il primo a parlarne è stato il Washington Post, il 24 novembre scorso) circa un ulteriore fantomatico piano, il Piano “Quedate en Mexico” (Resta in Messico), subito smentito dalla senatrice Olga Sanchez Cordero, da dicembre scorso ministra – di ferro – degli Interni del nuovo governo. Una smentita accompagnata da una sibillina dichiarazione: “Ad ogni modo il piano Quedate en Mexico non sostituisce il piano Tercer Pais Seguro”.
La differenza di quest’ultima proposta in tema di politiche migratorie significherebbe che le persone provenienti da paesi terzi che arrivano al confine sud degli Stati Uniti per richiedere asilo dovranno aspettare in Messico – e non oltrepassare il confine, come nel caso del Tercer Pais Seguro – in Messico. Per poter accedere ad un effettivo colloquio con le autorità statunitensi si dovrà dimostrare l’effettiva situazione di rischio per la persona. Sono molte le testimonianze di avvocati e difensori dei diritti delle persone migranti che affermano che questa è una pratica attiva almeno in parte dal 2016. Questo spiega perché ci siano liste di attesa di migliaia di persone nelle città di confine messicane, amministrate dallo stesso Istituto nazionale per la migrazione. Ad oggi, nel valico di confine di San Ysidro, che collega San Diego con Tijuana in Messico, la lista di attesa è di circa 5.000 migranti. L’agenzia statunitense preposta al controllo della frontiera, Customs and Borders (CBP) consente ogni giorno l’ingresso di al massimo 100 candidati per svolgere interviste su situazioni di rischio ben fondate, e i richiedenti asilo aspettano a Tijuana all’incirca 3 mesi per ottenere un colloquio con le autorità statunitensi.
In questi ultimi giorni si è iniziato a parlare di Zona Franca. Questa volta sì, de iure e de facto. Quest’ultima novità, attuata dallo scorso 1° gennaio nei 43 comuni confinanti con gli Stati Uniti, consiste in un piano economico per migliorare le condizioni soprattutto lavorative della zona della frontiera sud. Il piano Zona Franca offre vantaggi quali la riduzione del pagamento dell’Iva dal 16 all’8%, ma soprattutto l’aumento del salario minimo e l’omologazione del prezzo del carburante con gli Stati Uniti. Nel corso della presentazione del programma Zona Franca nella città di Reynosa, Tamaulipas, il nuovo presidente Andrés Manuel López Obrador ha spiegato che queste misure sono tese a migliorare la condizione dei lavoratori nei comuni di confine, impedendo così la loro migrazione verso gli Stati Uniti. “Il raddoppio del salario minimo rafforza il potere di consumo e, di conseguenza, il mercato interno, beneficiando così sia le imprese che i lavoratori“, ha affermato. Tuttavia, nonostante l’ottimismo con cui è stato presentato il programma, il periodo in cui verrà applicato è di solo due anni.
Intanto, un’altra carovana di migliaia di persone sta cercando di attraversare i confini meridionali del Messico. Il confronto della politica con la realtà attuale è imminente. Sarà veramente reso più agile il sistema di rifugio, con la conseguente possibilità per le persone migranti di trovarsi in una situazione regolare, di trovare un lavoro, di poter accedere ai servizi sociali e dunque di ricevere un’accoglienza adeguata? Oppure la politica di militarizzazione del confine continuerà ad investire sulle deportazioni e sulla detenzione dei centroamericani in viaggio? I prossimi mesi saranno decisivi per il nuovo governo di López Obrador, che dovrà necessariamente prendere una posizione chiara.
Articolo originale su Mondopoli