Chi dice Kobane purtroppo dice guerra, invece noi diciamo orti, diciamo rinascita, diciamo libertà. Oggi ne parliamo proprio con Ozlem Tankirulu, presidente dell’Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia. Prima della guerra il territorio di Rojava, in cui si trova Kobane, era ricco di coltivazioni: «Il 60% della produzione agricola della Siria arriva da quest’area», ci racconta Ozlem. Ora dopo la distruzione dei pozzi, molte zone accusano la mancanza di acqua, ma si riesce comunque a coltivare ciò che non richiede molto sforzo idrico. Le tecniche secolari di coltivazione – che risalgono a tempi antichissimi, quelli delle grandi civiltà sviluppatesi sui fiumi Tigri ed Eufrate – hanno permesso alla popolazione locale di riprendere l’uso comune delle terre.

 In alcuni villaggi semidistrutti dalla guerra, circondati da prati verdi e mucche libere al pascolo, le famiglie hanno deciso di tornare e riabitare le terre liberate dalla violenza. L’intento comune, adesso, è la necessità di avviare un processo di ricostruzione profonda proprio a partire dalla terra, tornando a renderla produttiva, tornando a cibarsi dei suoi frutti e restituendo speranza ai tanti siriani che ancora vivono nella completa insicurezza. «Per la popolazione locale è fondamentale mantenere un legame con la loro terra madre, significa continuare a coltivare la vita» continua Ozlem.

Il futuro di Kobane adesso passa anche dagli orti, «che rappresentano molto più di semplici appezzamenti di terreno: sono il simbolo della libertà di un popolo e di una terra che è conosciuta come la culla della civiltà». Nel 2015, una nostra delegazione ha avviato con l’amministrazione democratica del Rojava un piano per realizzare orti nelle scuole, tramite il progetto “Orti in Rojava”. Il nostro obiettivo? Portare in questa terra martoriata l’esperienza di Slow Food, quegli orti didattici dove oltre a coltivare il proprio cibo si partecipa a un programma di educazione ambientale e alimentare. «L’iniziativa è stata accolta con talmente tanto entusiasmo da grandi e piccini che siamo riusciti a dare vita a orti urbani e scuole in una decina di villaggi coinvolgendo oltre 1000 studenti».

Le attività scolastiche sono destinate a promuovere la libertà dei bambini e delle bambine, in tutti i campi. Tra queste figura l’insegnamento della lingua curda, in precedenza vietata, e dell’ecologia come principio fondamentale della società. La coltivazione degli alberi da frutto era scoraggiata dal regime per favorire la monocoltura di grano. Ora c’è la volontà di progettare, nei dintorni di Kobane, la coltivazione di fichi, melograni e di orti per il consumo delle famiglie e della comunità. Un sistema, questo, in cui le donne giocano un ruolo cruciale sia a livello domestico che politico: un’esperienza di avanguardia sociale che ha anche avuto, come momento costitutivo, l’adozione di una carta che rifiuta autoritarismo e militarismo a favore di uguaglianza e dritti umani.

«In curdo usiamo la stessa parola per indicare al contempo donna e vita, proprio per sottolineare il collegamento con la natura e la terra. A Kobane è stato fondamentale agire per proteggere quella terra, quella vita, e garantire così un futuro alle comunità locali». È a maggior ragione in contesti difficili che il cibo ricopre un ruolo fondamentale per guardare avanti: «il cibo crea speranza, rappresenta la vita, e chi sente di avere un collegamento con la vita non lascerà la sua terra e la sua comunità». Questo per Ozlem rappresenta il cibo del cambiamento: «Significa collaborare, responsabilizzare, rafforzare il senso di unione, coltivare insieme un futuro per queste terre, restituendo quella biodiversità che l’ha resa ricca nei secoli passati».

Carlo Petrini da Slowfood.it

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