È una delle voci più note, non solo in Italia, del cosiddetto “teatro di narrazione”, ma a uno come Ascanio Celestini che non ama nessuna etichetta, quella definizione sta molto stretta. I suoi testi e le sue interpretazioni sono più di un modo con il quale raccontare la vita di chi vive in basso, mostrando attenzione alla vita di ogni giorno, a cominciare dai più fragili. Sono la strada scelta per accompagnare i diversi tentativi, a volte efficaci a volte meno, rumorosi ma spesso silenziosi e poco visibili, di cambiare il mondo e i nostri immaginari.

 

In questa conversazione ragiona di molte temi: di arruolamenti in corso a cui sottrarsi (“ci stanno armando con parole violente, con la paura…”), di muri culturali (quelli ad esempio con cui parliamo e pensiamo ai migranti o alle comunità di rom e sinti) e di mattoni (le prigioni, in primis) da abbattere, di bugie e ipocrisie da svelare (“il capitalismo è fondato su una serie infinita di balle colossali…”). In un mondo incattivito, forse ha ragione Ascanio, ci sono un paio di cose fare. La prima: non avvilirci se vediamo che i cambiamenti sono lenti e marginali: “La lentezza del cambiamento è anche indice di una stratificazione che ci ritroveremo come un tesoro nel futuro…”. La seconda? Fare della debolezza la nostra clava.

Impoverimento, guerre infinite e spesso alimentate con armi made in Italy, razzismo, leggi ingiuste… Alcuni sostengono che è in corso una vera guerra contro i poveri del mondo. Il panorama italiano, a cominciare dai respingimenti dei migranti, sembra confermarlo.

Per combattere una guerra ci vogliono i politici che la giustificano, i generali che la organizzano e i soldati che la combattono. I primi due non mancano mai e sono sempre pronti. Invece i soldati scarseggiano sempre. Questi ultimi sono quelli che spesso non capiscono per quale motivo si debba combattere, sono i meno motivati e per primi subiscono la violenza concreta del conflitto. Allora, per far scoppiare la guerra, bisogna prima preparare l’esercito che la combatterà. Oggi viviamo questa fase. Quella dell’arruolamento. Politici e generali stanno inventando il nemico e i motivi per combatterlo. Ci stanno armando con parole violente, con la paura, con la rabbia. Sta cominciando il rituale come nei duelli tra animali. Gli esemplari maschi si mostrano forti e impauriscono gli avversari. Alle volte il rito si interrompe prima di prendersi a cornate, altre volte non basta la dimostrazione di forza e si arriva allo scontro.

Qualche anno fa in Io cammino in fila indiana (Einaudi), tra le altre cose, hai raccontato il “metodo Ponzio Pilato”:

“Il governo sfascia la scuola pubblica? … Segua il metodo Ponzio Pilato. Si lavi i denti! La scuola andrà in rovina, ma il tartaro sarà sconfitto… Milioni di lavoratori precari, famiglie che non riescono a pagare il mutuo… pensi al metodo Ponzio Pilato: si faccia una doccia! Se non si rispetta la dignità dei lavoratori, lei almeno rispetti il ph della pelle… Ha mai riflettuto sull’inquinamento dell’aria e dell’acqua? Usi il metodo Ponzio Pilato. Si pulisca le unghie!… La barbarie è inarrestabile, ma il nero sotto le unghie può essere arginato…”.

Forse una delle cause profonde della “guerra ai poveri” è proprio la diffusione nel tempo del metodo Ponzio Pilato. Come tentare di uscirne?

Quando seguo i dibattiti politici, tanto in rete quanto in tv, mi stupisce la mancanza di concretezza. Soprattutto la rete ci spinge a guardare tutto con distanza. Lo schermo del computer o dello smartphone funzionano come uno specchio. Attraverso quel monitor non guardiamo il mondo, ma la nostra idea di mondo. Guardiamo i fatti solo per giustificare la nostra idea su di essi. Ci convinciamo, o ci convincono, che i gli stranieri sono un pericolo e non serve a nulla vedere che sono dei poveracci che fuggono, che sono ragazzini, che non rappresentano un pericolo. Sui loro corpi vediamo solo quel che noi già pensiamo di loro. Li vediamo pericolosi anche quando sono cadaveri che galleggiano.

Una volta si diceva “tu guardi il dito e non la luna”. Oggi dovremmo dire che non guardiamo più nemmeno il dito, guardiamo solo in nostro occhio. Il mondo è uno sfondo per il nostro pregiudizio. Per allontanarci da questa gabbia dobbiamo comprendere che non è possibile conoscere il mondo. Possiamo conoscere quel che abbiamo davanti agli occhi. Per farlo dobbiamo togliere qualsiasi impedimento tra noi e i fatti. Guardare meno per vedere meglio.

Con la tua trilogia Ballata dei senza tetto – costituita da Laika e Pueblo, ospitati negli ultimi mesi in moltissimi teatri, e da un terzo spettacolo in via di formazione – tanti personaggi si muovono attorno a due parcheggi di periferia. Chi sono? Cosa raccontano?

In questi ultimi mesi s’è parlato di un bar in periferia, a Roma, nel quale una donna con disabilità ha subito una violenza ad opera di alcuni appartenenti ad una famiglia del clan Casamonica. La questione è all’attenzione dei giudici e non ho la preparazione per entrare nei dettagli, ma posso parlare della strada lungo la quale si trova quel bar. Sta dietro casa mia, nel quartiere che abito da quando sono nato. È stupefacente come quel bar possa esistere. Non c’è nessun’altra attività commerciale e le case attorno sono ad uno o due piani. Gestire un posto del genere implica una fatica incredibile. Quel bar è una zattera in mezzo alla tempesta, rischia di chiudere ogni giorno. Eppure sta a poche centinaia di metri dalla via Tuscolana, una strada trafficatissima. A due passi c’è la fermata della metro Anagnina, la prima della linea A. A pochi passi c’è l’università e un paio di strade più giù ci sarebbe anche una struttura pronta per diventare un polo culturale importante: le Officine Marconi. Ma le istituzioni sono completamente assenti. Così la poca distanza dalla metropolitana è vanificata dal fatto che è impossibile raggiungerla a piedi perché bisognerebbe attraversare l’inattraversabile Raccordo Anulare. Il polo culturale è chiuso e la vicinanza all’università è sfruttata solo per affittare stanze agli studenti.

Ecco cos’è la periferia. È un luogo tagliato fuori dalla città anche quando potrebbe starci dentro. A me interessa proprio raccontare questo luogo e la vita che non si interrompe anche quando viene isolato.

Quando racconti le periferie, in una delle quali ti ostini a vivere, cerchi di spiegare come anche in quelle più difficili ci sono persone che provano a costruire relazioni sociali diverse. “Non è vero che siamo tutti chiusi fra il telefonino e il forno a microonde. Non siamo tutti omologati”, hai scritto una volta (Lega, 2012). Come possiamo cambiare la direzione del nostro sguardo sulle periferie? Come possiamo accompagnare chi cammina su sentieri complicati per creare pezzi di città diversi?

Partecipo da qualche anno al progetto di gestione del piccolo teatro del Quarticciolo, in una periferia romana. Quello spazio sta silenziosamente cambiando il quartiere. Una parte degli abitanti continuerà imperterrita a non frequentarlo e a considerarlo un corpo estraneo, ma già oggi possiamo dire che per almeno due categorie di cittadini la vita è cambiata: per quelli che già frequentavano i teatri, ma doveva spostarsi mentre ora ce ne hanno uno sotto casa; e per quelli che si sono lentamente incuriositi e forse non andranno mai nei teatri del centro, ma frequentano questo spazio perché lo sentono loro.

Non dobbiamo avvilirci se vediamo che i cambiamenti sono lenti e marginali. La lentezza del cambiamento è anche indice di una stratificazione che ci ritroveremo come un tesoro nel futuro.

Gli invisibili, dai detenuti ai rom, hanno sempre occupato un ruolo centrale nel tuo teatro di narrazione. Una volta hai anche proposto di portare i ragazzi delle scuole in gita nelle prigioni. Dicevi sul serio?

Certamente. Il primo passo per l’apertura delle istituzioni chiuse non è quello che apre i cancelli per far uscire quelli che stanno dentro, ma per far entrare quelli che stanno fuori. Il motivo è fin troppo banale. quelli che stanno dentro non hanno bisogno di uscire per conoscere l’esterno: già lo conoscono. Sono quelli che stanno fuori che non hanno consapevolezza di quel che accade dentro. Dobbiamo occuparci di mostrarglielo se vogliamo abbattere il muro.

A proposito invece di rom: Luca Bravi, uno dei più bravi studiosi di storia dei rom e dei sinti in Europa, suggerisce di parlare di antiziganismo, cioè dell’odio che costruiamo verso rom e sinti facendone il nostro capro espiatorio per tutti i mali: dovremmo imparare questa parola e metterla accanto ad “antisemitismo” per avviare finalmente un processo culturale con cui smontare gli stereotipi e i pregiudizi che accompagnano le comunità rom. Cosa ne pensi?

Si tratta di comunità che sono sempre state confinate. Persino nei campi di sterminio se la passavano peggio degli altri. Piero Terracina racconta che ad Auschwitz gli lasciavano strumenti musicali, vestiti e capelli. Non dividevano i membri delle famiglie perché logisticamente era troppo complicato, ma poi anche per loro arrivava la camera a gas. È antropologicamente impossibile spezzare in un attimo il pregiudizio nel quale sono stati chiusi da secoli. Ma proprio per questo non c’è tempo da perdere. Dobbiamo fare il possibile per avvicinarci e farli conoscere e farlo in fretta.

Dal movimento No Tav in Val di Susa alle comunità zapatiste in Chiapas passando per molte e diverse esperienze di autogestione di spazi sociali, culturali, orti comunitari e perfino mercatini… C’è un mondo, poco visibile e spesso oggetto di repressione, che sembra aver smesso di credere nella delega e cerca il superamento di questa democrazia, non che venga amministrata decentemente. La non delega e il superamento della democrazia restano due fari con cui illuminare i tentativi di creare mondi nuovi?

Il capitalismo è fondato su una serie infinita di balle colossali. Trump ripete di continuo che gli Stati Uniti sono stati sfruttati per decenni dagli altri paesi del mondo. Sfruttati dalla Nato, dall’Europa e dalla Cina. È una follia, ma a forza di ripeterlo ci stanno credendo tutti dimenticando che la Nato è una creatura statunitense, che le dittature di mezzo mondo sono state create e sostenute da loro, che hanno piantato la bandiera in quasi tutti i teatri di guerra del pianeta.

Alla grande menzogna che rappresenta il Capitale possiamo rispondere con le nostre piccole verità. Deboli contro i potenti, ma forti delle nostre idee difendibili.

*Il testo qui sopra, oltre che per queste nostre pagine web, è stato scritto in agosto per il sedicesimo Rapporto sui diritti globali (dove è stato pubblicato con il titolo completo, Deboli contro i potenti, ma forti delle nostre idee), presentato a Roma in dicembre. Altri articoli di Ascanio Celestini sono leggibili qui.

 

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